Il drago e il sultano. La partita Italia-Turchia nel Mediterraneo

Nelle ultime due settimane si è sviluppata una certa tensione tra Turchia e Paesi europei per lo sgradevole “incidente della sedia”, di cui sono stati protagonisti il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, la presidente della Comissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, in visita ufficiale ad Ankara. Nel biasimo generale nei confronti del padrone di casa, si è distinta per durezza la dichiarazione rilasciata dal premier italiano Mario Draghi in merito all’affaire Sofagate:

«Non condivido assolutamente il comportamento del presidente Erdoğan […] la considerazione da fare è che con questi – chiamiamoli per quel che sonodittatori […] uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni di comportamenti, di visioni della società. E deve essere anche pronto a cooperare per gli interessi del proprio Paese».

Le parole di Draghi hanno provocato la convocazione dell’ambasciatore italiano ad Ankara, la sospensione di contratti importanti in campo militare ed energetico e la placida quanto stizzita risposta di Erdoğan:

«Tu [Draghi, N.d.R.] dopotutto, sei stato nominato al tuo ufficio e non eletto. Prima di poter usare una frase di quel tipo a proposito di Tayyip Erdoğan, dovresti per prima cosa conoscere la tua storia. Ma abbiamo visto che non la conosci».

Fin qui la vicenda per come viene raccontata nella maggior parte dei casi. Interpretazione che pecca di un inquadramento più grande nelle conflittualità mediterranee e in particolare nella partita libica.

L’arena libica

Proprio nello stesso giorno in cui von der Leyen e Michel erano ad Ankara, Draghi e Di Maio si recavano in Tripolitania, in visita ufficiale al governo libico di unità nazionale presieduto da Abdul Hamid Dbeibeh.

Al di là degli argomenti sul tavolo – ricostruzione e stabilizzazione del Paese, gestione dei flussi di migranti, interessi economici delle aziende italiane – la visita ha avuto soprattutto un importante valore simbolico. Dopo anni di apatia e indifferenza, l’Italia si re-interessa al suo vicino meridionale e al caos che ancora vi regna.

Un atto simbolico che arriva però a giochi quasi fatti.

Sebbene sia stata tra le prime promotrici del governo di al-Sarraj, Roma ha tuttavia voltato le spalle al suo alleato nel momento del bisogno (2019-2020), lasciandolo da solo a fronteggiare l’avanzata dell’esercito cirenaico di Khalifa Haftar (sostenuto da francesi, egiziani e russi).

Miliziani del governo di unità nazionale (luglio 2019).

Nel vuoto di potere effettivo lasciato dalla nostra titubante politica estera si è inserita la Turchia di Erdoğan. Con il suo massiccio sostegno militare, Tripoli è riuscita a bloccare la marcia di Haftar e spezzare il suo assalto nei primi nella primavera del 2020.

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Di questo intervento, ora la Turchia incassa i dividendi politici. Il governo da lei sostenuto è stato (formalmente) riconosciuto come legittimo anche dal parlamento della Cirenaica e traghetterà l’intero Paese a elezioni alla fine del 2021. L’aiuto turco poi vincola definitivamente Tripoli ai trattati firmati per la definizione del confine tra acque libiche e zona economica esclusiva turca a largo di Creta (accordo ritenuto nullo da Grecia, Cipro ed Egitto).

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Non dovrebbe sorprendere dunque che per ripicca alle parole di Draghi e per rimetterci al “nostro posto” in Libia, Erdoğan abbia potuto tranquillamente convocare l’intero governo libico di unità nazionale ad Ankara, e che questo vi si sia recato senza batter ciglio.

Tripoli, in sostanza, è nella piena disponibilità di Ankara.

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La partita italiana

Quale è stata dunque la ratio di Draghi quando ha tacciato Erdoğan di essere un dittatore?

Restia all’intervento diretto, attanagliata dai suoi problemi domestici – il coronavirus, l’economia, l’ingovernabilità politica – l’Italia in Libia può giocare contro la Turchia di Erdoğan solotanto la carta della superiorità morale, il fatto di essere una democrazia che tutela diritti e libertà dei propri cittadini e delle proprie minoranze.

Che la democrazia in Turchia negli ultimi anni non se la passi bene è un fatto abbastanza conclamato. Basti pensare alla sempre minore libertà di esprimere dissenso, alla ripetizione (non riconteggio) voluta per le elezioni municipali di Istanbul in seguito alla vittoria dell’opposizione, o al fatto che i rettori universitari siano nominati dal presidente senza consultazioni di sorta.

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La frase di Draghi, mossa disperata in una battaglia difficile, vuole essere (forse) un tentativo di segnalare al governo libico e soprattutto al garante di ultima istanza, gli Stati Uniti d’America, che dovrebbe essere l’Italia, e non un’autarchica Turchia, l’interlocutore privilegiato per la pacificazione e ricostruzione democratica della Libia. Il messaggio è diretto proprio a Mr. Biden, che in un’intervista al New York Times del 2019 aveva usato parole estremamente simili a quelle pronunciate da Mario Draghi:

«[Erdoğan, N.d.R.] è un autocrate. […] Dovremmo avere un approccio diverso, render chiaro che sosteniamo una leadership d’opposizione. […] Dobbiamo parlare apertamente di quello che pensiamo sia sbagliato. Deve pagare un prezzo.»

Non a caso, la settimana successiva, Di Maio è volato proprio a Washington per cercare – tra le altre cose: vaccini, caso Biot – l’appoggio statunitense in Libia.

Il messaggio di Draghi è anche diretto ai partner europei, in particolare Grecia, Cipro, Francia e Germania. Ai primi tre, vuole segnalare il nostro sostegno nelle contese marittime che li vedono opposti alla Turchia. Con la Germania, il tentativo è quello di infilare il cuneo dei diritti umani nel suo rapporto benigno e accondiscendente con la Turchia, per scuotere equilibri a noi sfavorevoli.

La partita turca

Purtroppo per noi, il recupero dell’influenza italiana in Libia si scontra con la posizione di vantaggio della Turchia.

Dopo essere stata tenuta alla porta dall’UE per anni, la Turchia di Erdoğan ha deciso di prendersi la sua rivalsa – oltre che con una sedia mancante – ricattando l’UE sulla pelle dei migranti e coltivando la sua influenza nello spazio del vecchio impero ottomano.

Tramite Anatolia e Tripolitania controlla di fatto i “rubinetti” dei flussi migratori – la rotta africana e la rotta egeo-balcanica. È presente in Siria e nel Corno d’Africa con i propri soldati e he offerto il proprio sostegno militare all’Azerbaijan contro l’Armenia, nel Caucaso.

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Sta inoltre accrescendo il proprio soft power di fronte alle nostre coste, in Albania. Il nuovo ospedale di Fier è stato gentilmente offerto alla comunità da Erdoğan (oltre a portare il nome del sultano) ed è stato recentemente concluso un accordo per l’addestramento dell’esercito albanese da parte di personale turco.

Il problema, con buona pace di Mr. Biden e soprattutto nostra, è che la Turchia di Erdoğan costituisce ancora un alleato fondamentale per gli Stati Uniti nel quadrante di Caucaso e Mar Nero.

L’incontro tra la delegazione turca e quella statunitense a Berlino al summit sulla Libia del 19 gennaio 2020.

Proprio nei giorni in cui le tensioni tra Russia e Stati Uniti stanno toccando l’apice per via della questione ucraina, l’amministrazione Biden non può permettersi (non ancora) di indisporre il Paese che ha il secondo esercito più potente nella NATO e che è il meno restio a usarlo sul campo.

La Turchia è tra i principali sostenitori della causa ucraina: non riconosce l’annessione della Crimea da parte della Russia e fornisce sostegno economico e materiale all’Ucraina nel conflitto contro le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk.

Non ultimo, la Turchia è il controllore dei Dardanelli e la porta di accesso al Mar Nero, l’unico mare caldo della Russia.

Per accedere allo stagno, bisogna avere il permesso della Turchia e osservare la convenzione di Montreaux del 1936, che impone una permanenza massima di ventuno giorni alle navi militari battenti bandiera di uno Stato che non ha porti sul Mar Nero.

Allo scopo di ingraziarsi la nuova amministrazione Biden, Erdoğan ha di recente rispolverato il progetto del canale Istanbul. Un megacanale da quarantacinque chilometri che prevederebbe il taglio della penisola tracica a ovest di Istanbul e che sarebbe esente – secondo Erdoğan – dalla convenzione di Montreaux. In tal modo, la marina americana potrebbe sostare nel Mar Nero a tempo indefinito per testare la pazienza dei russi.

E per dimostrare quanto facesse sul serio sulla questione, Erdoğan ha ordinato l’incarcerazione di dieci ammiragli, rei di essere stati tra i firmatari di un documento in cui si ribadiva la necessità di osservare la convenzione di Montreaux anche per il nuovo canale.

Siamo proprio sicuri che, dopotutto, un autocrate non sia più utile agli Stati Uniti contro Mosca, rispetto a una democrazia in crisi perenne che non capisce il mondo che la circonda?

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