Mourinho e altri rimedi

Per poter vincere serve una mentalità vincente. Banale? Forse. Ma nulla è più consistente della banalità. Nonostante questa concezione della vittoria non appartenga in maniera stretta alla storia giallorossa, non è detto che non si possa cambiare, in modo più o meno repentino, un trend che da tempo cerca metamorfosi.

José Mourinho è stato annunciato tra lo stupore generale come prossimo allenatore della Roma. Sì, proprio il mister che fece esultare Milano (sponda nerazzurra) per il triplete del 2010, conquistato anche ai danni di Claudio Ranieri e della sua incredibile e magica rincorsa.

Ne è passato di tempo e ne sono passate di vittorie, sconfitte, pareggi e delusioni. Soprattutto delusioni, tanto per confermare che la Roma, quella mentalità vincente di cui si parlava prima, non l’ha mai avuta.

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Gli anni Duemila: da Capello a Spalletti

La perfezione non esiste. Non è di questo mondo e mai lo sarà. Ciò che si può fare è cercare quanto più possibile di avvicinarsi a essa. Non vince chi è perfetto, bensì chi sbaglia meno degli altri. Fabio Capello lo insegnò alla sua Roma, quella del terzo scudetto, tanto che l’inevitabile tricolore del 2001 porta, ancora oggi, la sua firma in calce.

Un allenatore duro, che non guardava in faccia nessuno, che con la sua serietà e incontraddistinta spregiudicatezza gettò le fondamenta per quello che senza dubbio è stato uno dei momenti più alti del gioco romanista.

Una piazza in delirio, nomi di spessore in tutti i reparti e la meravigliosa cavalcata verso la conquista dello scudetto: il nuovo millennio si aprì all’insegna di una Roma che sembrava potesse tornare a essere Caput Mundi.

Ma l’impero durò ben meno del previsto, somigliando più a una sfortunata partita di Risiko che non a una reale conquista del panorama italiano ed europeo. La squadra si sfaldò: andarono via Capello, Emerson, Zebina. Tre pedine fondamentali di un undici e di una città che aveva adottato come figli quegli eroi immortali.

Nelle girandole di cambi in panchina, fu Luciano Spalletti a gettare concime per la ricrescita di un albero seccato dall’impotenza della propria paura. La Roma restava a guardare il mondo che si muoveva intorno, dopo aver passato una vita a conquistarlo.

Foto: Wikimedia Commons.

Certo, truppe e guerre sono arnesi ben diversi da un pallone. Ma, oltre alla forza bruta e la genialità in battaglia, era la mentalità a dare a Roma quell’impatto decisivo. Era il nome a definire la grandezza di una città diventata impero. Con Spalletti quel nome ritornò a suonare grande, riempiendo la bocca di chi lo proferiva.

Un gioco sprizzante, divertente, con metronomi come Pizarro e De Rossi a illuminare le magie di Francesco Totti “falso nueve” e del montenegrino Vučinić. Due Coppe Italia, una Supercoppa Italiana, ecco che si stava lentamente riprendendo il carrarmato giallorosso.

Ma come i sogni svaniscono al mattino, così quella frizzantezza e quel meschino sorriso da incoscienti e guasconi sparì dalla bocca di quegli “undici leoni a volte un po’ …”, parafrasando Mastandrea e la sua poesia di un romanismo romantico.

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Da Ranieri a Fonseca: che ne è stato dei sogni?

Chi è romanista lo sa che è destinato a soffrire. Potrebbe essere una frase fatta, da tifoso che non guarda alle statistiche o al risultato probabile o effettivo. Ma essere romanisti significa amare incondizionatamente il calcio e la sua magia.

Claudio Ranieri ha dimostrato in tutti i modi cosa volesse dire tutto questo, arrivando a un soffio da un’impresa che avrebbe spinto chiunque a gridare al miracolo. Ma fu proprio Mourinho a strappare quel simbolo di rivalsa dagli occhi dei tifosi giallorossi.

Dopo di lui hanno provato Luis Enrique, Zeman, Garcia, Spalletti ancora una volta a dare uno sprone tale da creare cià che era stato a inizio duemila. Nulla. Una scossa con Di Francesco, ultimo baluardo di quel 2001, con la semifinale raggiunta nel 2018 dopo il miracolo contro il Barcellona dei marziani. E poi nulla più.

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Fino a quest’anno. Paulo Fonseca sembrava pronto a dare un cambio di rotta, tanto che a metà campionato erano solo sei i punti di distacco dalla vetta. Erano. Perchè ben presto la Roma ha fatto ciò cui ha abituato i suoi tifosi da diciotto anni a questa parte: capitolare.

Nell’arco di un mese la Roma si è dimostrata fragile. Una fragilità dalla quale non riesce a staccarsi, come una zecca attaccata a una coperta di Linus dei rimpianti.

Sessanta infortuni in un anno, una difesa colabrodo, errori individuali tanto a livello calcistico quanto a livello regolamentare (ricordare i cambi contro lo Spezia in Coppa Italia o l’errore della lista in cui fu inserito Diawara). E come accade in un regno, se i sudditi muiono di fame la testa che deve cadere è quella del Re.

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Lo Special One: Mourinho è pronto

«Se non la ami quando perde, non amarla quando vince».

In una frase è riassunto l’amore dei tifosi per una squadra, core de ‘sta città. Nessun allenatore, tranne Ranieri, per la sua dichiarata fede giallorossa, è riuscito a stregare del tutto Roma e i suoi tifosi. E ancora meno i giocatori.

Con l’approssimarsi di un altro campionato deludente, la nuova società americana targata Friedkin (Dan e Ryan) hanno deciso di incidere in maniera definitiva. Cambio di rotta. Totale.

Serviva un nome che scuotesse l’ambiente; e le radio romane hanno visto una città passare dall’apatia del ritorno imminente della semifinale di Europa League a un entusiasmo dilagante in poche ore, come mai era successo. Il motivo? Un nome: José Mourinho. Più volte nell’arco della sua carriera il portoghese è stato accostato a personaggi come Herrera o Velasco, per la sua capacità dialettica e la grande estrazione filo-pedagogica.

Foto: Wikipedia Commons.

L’ex artefice del triplete interista rappresenta il segnale forte che serviva a una squadra allo sbando. Tanti progetti negli anni, mai seguiti dai risultati sperati. E allora la necessità di tornare alla vecchia scuola, alla voce forte. Da un portoghese all’altro, la piazza romana è andata in estasi solo per la notizia. Sarà il progetto giusto per ripartire (l’ennesima volta)?

Mou ha spiegato all’Inter come si vince, come si soffre, come si corre. Ha insegnato ai giornalisti che non sanno tutto, men che mai ciò che accade nello spogliatoio di una squadra dove non vivono. Ha fatto credere ai ragazzi di essere adulti e agli adulti di essere ragazzi, trasformandoli in uomini di pari età.

Avere José Mourinho in panchina significa trovarsi di fronte a uno psicologo, un fratello, un nemico, un amico, un padre. E per ultimo un allenatore. Lui è la dimostrazione che lo sport, soprattutto ad alti livelli, si gioca con la testa e non con i piedi.

E pensando a un altro grande ex interista che con le parole sapeva giocare e insegnare, Helenio Herrera, magari anche Mourinho metterà le frasi motivazionali negli spoglitoi e nelle sale d’allenamento. Per ora si è limitato a qualcosa di semplice, ma ovviamente di grande effetto. A modo suo. Le giuste parole per far innamorare.

«Daje Roma».

Fonte: twitter

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