Cyberfemminismo: i manga, gli anime e la filosofia

Alita l’angelo della battaglia e Ghost in the Shell sono i titoli di due fra i più celebri prodotti dell’industria dell’intrattenimento giapponese. Nati a cavallo fra anni Ottanta e Novanta e popolari anche in Italia, vengono riproposti, ancora oggi, in adattamenti, riscritture, trasposizioni, remake. Entrambi, inoltre, annoverano fra i protagonisti dei cyborg. Ad accomunarli vi è però un ultimo fattore: la riflessione su umano e post-umano, biopolitica e questioni di genere che ne scaturisce è accomunabile e leggibile attraverso la lente del cyberfemminismo. Autori, studiosi e militanti di questa corrente citano spesso e volentieri manga e anime, assieme ad altre narrazioni della fantascienza occidentale, quali fonte di ispirazione.

Il Giappone, Paese straziato dal dissidio fra solida tradizione e modernizzazione repentina e futuristica, tragiche vicende belliche del Novecento e disastri ecologici ricorrenti, è un terreno ideale per l’insorgere della fantascienza e del cyberpunk come generi narrativi prediletti. Le contraddizioni del capitalismo, qui più che in ogni altro luogo del mondo, hanno dato origine a personaggi e storie tanto popolari quanto stratificate. L’animazione in Giappone si è così incrociata con una delle correnti filosofiche più dirompenti e complesse degli ultimi decenni. Per capirne le comunanze, bisogna però prima definirne i termini.

I fratelli maggiori del cyborg?

Capita spesso, nel discorso comune, una certa confusione fra i termini automa, robot, androide e cyborg, indifferentemente usati come sinonimi l’uno dell’altro. In realtà le differenze sono essenziali e scaturiscono dal confronto con la definizione di essere umano. Gli automi e i robot sono creazioni umane con livello tecnologico variabile e con lo scopo di interagire con l’attività umana stessa. In particolare, l’automa nasce per imitare l’uomo e il robot per sostituirlo, rendendone più efficaci i processi lavorativi.

L’automa ha un’origine legata al ruolo del cortigiano, inteso come ingranaggio che interagisce nel contesto delle corti principesche europee. Da Leonardo da Vinci a Cartesio, le macchine da corte hanno il fine di stupire gli ospiti imitando attività prettamente umane, in un gioco di imitazione che ha a che fare più con lo stupore del teatro che con la scienza.

Un androide in una rappresentazione manoscritta di Anonimo italiano, XVI secolo. Foto: Wikimedia Commons.

Imitare l’umano, sostituire l’umano

Il robot non imita, come farebbe l’automa, ma supera: in esso viene meno la caratteristica di somiglianza all’essere vivente in favore di una specializzazione crescente nelle attività produttive. A titolo esemplificativo: il classico carillon con la statuetta di una ballerina che gira su sé stessa è un automa perché imita un’attività umana, il mulino ad acqua è una forma rudimentale di robot perché sostituisce la forza lavoro umana.

L’androide è un robot ad alta tecnologia che, oltre al grado di specializzazione in uno o più lavori, ha la caratteristica di assomigliare al proprio creatore. La sua specifica è quella di generare un senso di inquietudine nell’essere umano, per cui l’androide è un essere simile e diverso, familiare e ontologicamente distante allo stesso tempo. Il brivido provocato da quanto ci appare vivo e familiare, e al tempo stesso percepiamo come inanimato, è ciò che Sigmund Freud chiama “perturbante”. Il meccanismo è lo stesso per cui ci rendono inquieti i manichini dei negozi di vestiti, le bambole dei film horror e i tronchi d’albero dalla forma antropomorfa.

Il cyborg come contraddizione

La caratteristica fondamentale di automi, robot e androidi è quella di dipendere dall’uomo e operare in suo favore. Questo fattore ha un significato estremamente politico: il robot è sottoposto, sia nella scala sociale che in quella ontologica, all’essere umano. Ne sono prova le celebri Tre Leggi della Robotica ideate da Isaac Asimov, il cui senso ultimo è escludere, da un lato, la ribellione delle macchine contro il proprio creatore e padrone, e dall’altro il libero arbitrio sulla propria esistenza. Il cyborg, sotto questa luce, appare come qualcosa di completamente diverso.

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Innanzitutto, come da etimologia, il cyborg è una creatura che reca in sé una contraddizione: in esso sono presenti componenti organiche e macchiniche, biologiche e tecnologiche al contempo. Vi convivono organi e protesi artificiali, hardware e carne. A titolo d’esempio, per quanto provocatorio, un uomo con problemi cardiocircolatori a cui fosse applicato un bypass sarebbe da considerarsi un cyborg proprio come il mostro di Frankenstein e il golem della tradizione ebraica.

Il cyborg e le Leggi di Asimov

In secondo luogo, il cyborg non è tenuto a rispondere alle Leggi di Asimov. Non è un ingranaggio automatico, ma un individuo in grado di avere coscienza di sé e concepirsi come altro dall’uomo. L’assoggettamento al proprio creatore, l’essere parte del suo processo produttivo, non gli si addicono. Il cyborg, in ultima analisi, mette in crisi la differenza ontologica stessa fra naturale e artificiale. La fantascienza mondiale è colma tanto di robot che si ribellano all’uomo, come in 2001: Odissea nello Spazio e Blade Runner, quanto di uomini che non sanno più distinguere fra macchine ed esseri viventi, come il personaggio di Joaquin Phoenix in Lei che si innamora di un’intelligenza artificiale.

L’insorgere di questa ambiguità è in genere il motore d’avvio del dramma narrativo fantascientifico. Il cyborg, diversamente, reca in sé fin dall’inizio la ferita della contraddizione. Alita, protagonista del manga e dei film omonimi, si definisce consapevolmente «un essere vivente imperfetto, dilaniato fin dall’inizio dal contrasto fra carne e metallo». Da qui parte la riflessione, filosofica e politica, del pensiero cyberfemminista.

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Il cyborg Motoko Kusanagi, protagonista del manga Ghost in the Shell di Masamune Shirow. Foto: Ghost in the Shell Wiki.

Cyberfemminismo e filosofia

Nella storia della filosofia occidentale si possono ritracciare dei titoli programmatici e ricorrenti parecchio indicativi. Platone ha scritto i Dialoghi, Cartesio un Discorso, Spinoza e Wittgenstein un Tractatus. Fu Karl Marx, conscio di dover sostituire «alle armi della critica, la critica delle armi», a pubblicare con Friedrich Engels, in quell’anno 1848 che sconvolse l’Europa, un Manifesto.

La denominazione tradiva un intento non solo speculativo e dimostrativo, ma pratico. Una teoria cui dovesse far seguito la prassi, o meglio un legame indistricabile fra l’azione teorica e quella pratica, in quanto entrambe fondate sulla messa in crisi l’una dello status di pensiero, l’altra dello status sociale dominante. Allo stesso modo, i testi di riferimento del pensiero cyberfemminista e della sua sorella più giovane, la filosofia xenofemminista, sono manifesti.

Oltre che in Marx e nella sua filosofia della prassi, queste correnti trovano un importante antenato in Michel Foucault, l’archeologo dei saperi. Sua è la concezione di biopolitica e microfisica del potere. I rapporti di dominazione e subordinazione sono cioè inscritti non nei massimi sistemi cosmologici (concezione medievale delle gerarchie) ma nel sapere scientifico e nelle sue applicazioni, nel rapporto fra corpo e società e nella sessualità.

L’antinaturalismo dello xenofemminismo

La Natura stessa come ente assoluto viene decostruita in quanto ennesima costruzione dei rapporti di potere: da qui prende le mosse Helen Hester, che nel suo Manifesto Xenofemminista (2015) afferma come «la tecnologia ha creato i veri presupposti per rovesciare queste condizioni naturali oppressive, insieme ai loro baluardi culturali. Il fatto che una determinata condizione venga descritta come naturale in questo momento storico non è condizione sufficiente per supporre che non si possa cambiare».

Se quella che chiamiamo natura ha previsto l’inferiorità biologica del genere femminile, e il suo motto, allora bisogna abolire l’idea di natura e anche di genere. Terzo grande riferimento accademico per xenofemminismo e cyberfemminismo, infatti, sono i gender studies inaugurati da Judith Butler, per cui il genere non esiste a priori ma si esprime, come in una performance teatrale o in un gioco di ruolo, solo nell’atto pratico.

Una teoria per la rivoluzione del cyberfemminismo

Di tutti questi spunti, dal marxismo al femminismo, dall’archeologia della sessualità alla queerness, si nutre un testo fondamentale sia per il cyberfemminismo che per l’immaginario cyberpunk. Donna J. Haraway, in Manifesto cyborg (1985), individua nel cyborg la più oppressa, e la più intrinsecamente rivoluzionaria, fra le creature.

Riassumere la teoria di Haraway sarebbe impossibile senza semplificare. Basti sapere che per lei la tecnologia non è neutrale, ma è un campo di battaglie ideologico in cui si riversano schemi patriarcali, classisti, specisti e conservatori. In pratica, artifici sociali costruiti dall’uomo e scritti attraverso le sue regole, esattamente come lo sono la biologia, la narrativa e la società.

Il cyborg, tradendo il proprio doppio statuto di essere che accoglie e rigetta la naturalità, è un soggetto oppresso, fluido, ribelle: unico in grado di sovvertire le regole politiche, di genere e di sapere dell’uomo, il cyborg è un’autocoscienza tecnologica. Come sintetizza Haraway, è il cyborg la grande alterità all’essere umano, perché «non riconoscerebbe il giardino dell’Eden: non è nato dal fango e non può pensare di ritornare polvere».

Alita, un cyber-samurai alla ricerca della propria identità

Quella che Haraway descrive è una ribellione di mostri, cyborg e altre negazioni dell’ordine costituito. Il suo universo filosofico, al limite della narrativa, è popolato di esseri non dissimili da quelli di Alita l’angelo della battaglia, storico manga di Yukito Kishiro del 1991. L’opera è fra le vette mondiali del cyberpunk inteso come fusione dell’immaginario punk, fatto di violenza, ribellione e sporcizia, con elementi cibernetici.

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Fra gli ultimi adattamenti, quello hollywoodiano di Robert Rodriguez del 2019 riesce nell’impresa di edulcorarne il senso originale, trasformando la vicenda del cyborg Alita in una sorta di teen drama. Quella di Kishiro è in realtà un’epopea di grande impatto emotivo e dalle molteplici chiavi di lettura: c’è chi vi ha visto una metafora del Giappone post-bellico, suddito delle potenze occidentali, e chi un aggiornamento in chiave distopica della figura del samurai. Fondamentalmente, si tratta di un portentoso romanzo di formazione.

Alita: trama e contesto

Alita è una giovane cyborg, con connotati femminili, rinvenuta fra i rifiuti da uno scienziato, il dottor Ido. Il contesto è quello della Città Discarica, una sorta di ghetto multietnico e degradato dove umani e cyborg convivono e le gare clandestine, le risse e il mercato nero delle componenti tecnologiche si susseguono incessantemente. La Città Discarica è circondata dal deserto più inospitale ed è sormontata da Salem, oasi sospesa riservata a pochi privilegiati. In questo mondo, i cyborg hanno una particolarità: la loro coscienza è legata alla testa e alla spina dorsale, pertanto il loro corpo è intercambiabile.

La tipologia di apparato corporeo, inoltre, modifica il carattere: per esempio, una testa impiantata su un corpo di guerriero sviluppa un carattere più combattivo e violento. Quella di Kishiro è una biotecnologia ispirata direttamente a Cartesio e a Nietzsche, autori citati dallo stesso nelle note a margine del fumetto. Con Cartesio il corpo è macchina e la coscienza è anima, ma con Nietzsche il primato è del corpo sulla mente, cioè della tecnologia sullo spirito.

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Il cyborg Alita nell’omonimo manga di Yukito Kishiro. Foto: Battle Angel Alita Wiki.

Alita come cyborg rivoluzionario

Per iniziare a trarre le fila della nostra lunga introduzione teorica, Alita non è un semplice robot, ma una macchina biologica dotata di libero arbitrio e indomita forza di volontà, alla ricerca della propria identità e animata da un senso di ribellione verso lo status quo. Alita ha tutte le caratteristiche del cyborg subalterno: è orfana, giovane donna e vive in un contesto di emarginazione. In quanto cyborg, è consapevole del proprio statuto e ne è dilaniata. In quanto donna, è fatta di continuo oggetto di attenzioni e violenze. Da orfana, infine, è destinata a una vita nomade. Nel suo corpo sono impresse le dinamiche di potere della società.

Il suo mettere in discussione i propri connotati di genere la rende un individuo fluido: come nella performatività di Butler, il suo carattere è determinato dalla performance del corpo che le viene installato. Da brava figlia del suo padre adottivo, Alita scopre i tremori e i dubbi dell’adolescenza umana, diventa campionessa sportiva e poi fugge di casa.

Mutando il corpo nel corso della propria maturazione, si unisce alla ribellione che imperversa per il deserto e arriva a scoprire il mistero che si cela nel cuore della città di Salem. Sul finire del racconto, Alita si troverà a scegliere se sopravvivere o rinunciare alla propria individualità e sacrificarsi per il bene collettivo. Citando Haraway, Alita non può sognare il giardino dell’Eden: la sua è una vicenda votata a scompaginare regole, aspettative, subalternità.

Ghost in the Shell: la rivolta delle ginoidi

Quello di Alita è un mondo narrativo ibrido. Come nella saga cinematografica di Mad Max di George Miller vi si trovano assieme fantascienza, epica classica, western e avventura. Con Ghost in the Shell, invece, siamo pienamente inseriti in un universo sci-fi e distopico. Masamune Shirow, autore del primo manga della saga nel 1989, è noto fra gli appassionati per essere il più complesso, ostico e arzigogolato mangaka fantascientifico: le avventure del cyborg Motoko Kusanagi e della sua squadra di agenti di polizia investono una varietà di citazioni, note tecnologiche e competenze cibernetiche impressionanti per un’opera destinata al grande pubblico.

Altrettanto complesso è l’insieme dei prodotti legati a Ghost in the Shell. Fra le decine di omaggi, sequel, riduzioni animate e derivati, spiccano per importanza i due film anime diretti da Mamoru Oshii. Nel secondo dei quali, Innocence (2004), non serve essere un esperto di cyberfemminismo per scovare la presenza di Donna J. Haraway: è lei stessa a comparire, in forma animata, come personaggio.

La trama di Innocence, poliziesco criptico e pervaso da una certa inquietudine, prende le mosse da una ribellione imprevista di ginoidi, robot antropomorfi dai connotati femminili e immessi sul mercato come oggetti sessuali. A rendere le ginoidi più simili a cyborg che ad androidi, è il possesso di un’anima (ghost), creata e installatagli illegalmente. Proprio questa particolarità le svincola dalle Leggi di Asimov, rendendole capaci di uccidersi e uccidere esseri umani. Il film, già da questo breve riassunto, appare pervaso di suggestioni cyberfemministe, dal discorso sulla subalternità alla ribellione verso le differenze fra biologia e tecnologia. 

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Locandina internazionale di Ghost in the Shell 2: Innocence di Mamoru Oshii. Foto: Ghost in the Shell Wiki.

Anime, politica, cyberfemminismo

È però lo stesso personaggio di Haraway, ovviamente cyborg a propria volta, a esplicitare il senso ultimo della rivolta delle ginoidi. Anche i malfunzionamenti hanno una logica, che nel caso della ribellione implica il sottrarsi alle Leggi patriarcali della robotica. Ultima considerazione di Haraway, ma non meno carica di implicazioni, la ribellione dimostra che le differenze fra uomo e macchina sono tutt’altro che ovvie.

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La rivolta delle ginoidi e dei cyborg va quindi in tre direzioni. Una, specificatamente post-umana, riguarda l’abolizione dei confini fra naturale e artificiale, mente e corpo, organismi e macchine in quanto terreno non di sapere immutabile, ma di rapporti politici. La seconda riguarda il concetto di fluidità di genere e queerness. Gli esseri meccanici e macchinici ci ricordano, come afferma Butler, che «il corpo è inteso come un processo attivo di incorporazione di determinate possibilità culturali e storiche».

Infine, nel solco dell’abolizione dei confini e dei dualismi di ogni tipo, la terza direzione va a toccare tendenze di xenofemminismo per come lo presenta Hester: «una forma di femminismo tecnomaterialista, antinaturalista e abolizionista del genere [], una politica che veda la tecnologia come uno strumento per l’attivismo», consideri la natura come «spazio di contestazione, dunque afferente alla sfera politica» e il genere come «piattaforma rielaborabile».

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Motoko Kusanagi disegnata da Masamune Shirow. Foto: Ghost in the Shell Wiki.

Cyberfemminismo: una fantascienza per la politica

Quello che abbiamo presentato è un breve excursus attraverso il vocabolario tecnico fantascientifico, la teoria cyberfemminista e la pop culture cyberpunk giapponese. Il pensiero di Hester, Haraway, Butler e Foucault non si ferma ovviamente alle poche citazioni riportate, né la fortuna dei cyborg nella distopia nipponica ai due esempi descritti. A ben vedere, per quanto il Giappone sia per definizione il regno della tecnologia e della narrazione multimediale distopica, elementi di interesse filosofico e politico si possono rintracciare nei prodotti di fantascienza da qualsiasi angolo del globo.

Il genere si presta, per propria natura, a riflettere, esasperare, analizzare questioni di potere, tecnica, politica ed ecologia presenti nel nostro mondo (persino il popolarissimo Marvel Cinematic Universe presenta elementi ideologicamente connotati). Soprattutto, grazie alla portata immaginifica insita in questo tipo di racconto, la fantascienza ci aiuta a trovare se non soluzioni, punti di vista inediti.

Una curiosa convergenza

Il caso del cyberfemminismo applicato ad anime e manga ci dimostra innanzitutto come la narrativa popolare, il fumetto, i film d’animazione non siano un terreno neutro. In secondo luogo, denuncia quanto sia arretrata la riflessione in Italia quanto a istanze queer e nuovi femminismi. Ciò vale sia a livello politico (ne è prova il dibattito parlamentare degli ultimi mesi, giocato su argomenti piuttosto tiepidi) che accademico, essendo il cyberfemminismo un pensiero di matrice anglofona e capace di mettere alla berlina buona parte del pensiero occidentale su cui riposano le nostre Università.

Infine, emerge una curiosa ma essenziale convergenza fra fantascienza, filosofia e politica rivoluzionaria. In tutti e tre i casi sono centrali il superamento di paradigmi precostituiti e la capacità di immaginare un mondo nuovo. È quanto ci insegna uno dei personaggi più struggenti della distopia nipponica, la giovane Rei Ayanami dell’universo narrativo di Neon Genesis Evangelion, creato da Hideaki Anno nel 1994 e di cui vedremo, al termine di quest’estate, il capitolo conclusivo.

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Rei Ayanami, personaggio di Neon Genesis Evangelion di Hodeaki Anno. Foto: Evangelion Wiki.

Ecce cyborg

A prescindere dallo statuto ontologico di Rei, descrivendo il quale si rivelerebbero elementi fondamentali della trama, basti sapere che anche lei, come il cyborg Alita, è un individuo a suo modo alieno, oggetto di dinamiche di oppressione e che si trova a interrogarsi sulla propria identità. In un celebre monologo della serie originale anime, Rei sembra riassumere tutte le tematiche, i dubbi, le domande tipiche di un cyborg e riprese dal pensiero cyberfemminista: «Un essere umano creato da un uomo e da una donna. Città. Una cosa creata dall’uomo. Eva. Una cosa creata dall’uomo. Cos’è l’uomo? Una cosa creata da Dio? L’uomo è una cosa creata dall’uomo []. Cosa sono io? Io sono me stessa. Questo corpo costituisce il mio essere, la forma che definisce il mio essere. Il mio io visibile, che però non percepisco come il mio io».

Rei, nel corso della propria maturazione, si troverà a mettere in questione le leggi, patriarcali e conservatrici, della biologia, del potere e della tecnologia. Lo farà, come vuole il pensiero cyberfemminista, attraverso una presa di coscienza e di autodeterminazione tipica non dei robot ma dei cyborg. Tutto il senso della lotta di Rei, di Alita, delle ginoidi di Ghost in the Shell, è dopotutto racchiusa proprio in un’altra sua frase: «La forza dell’immaginazione è la forza di costruire il proprio futuro, di far scorrere il tempo».

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