Non è un cantautore politico! Guccini secondo Paolo Talanca

Ha ragione il Maestro Gianni Mura quando si prende la briga di dire in prefazione che «Talanca ha raccontato così in profondità Francesco (vita, opere, pensieri, radici) da sconsigliare a chiunque, a me per primo, di avventurarsi nello stesso terreno». In effetti della letteratura gucciniana piovutaci addosso negli ultimi decenni, Fra la via Emilia e il West (Hoepli, nella collana: La storia della canzone italiana/I protagonisti, 2020, pp. 143) di Paolo Talanca, insegnante e critico musicale, si offre come una summa esaustiva e approfondita, senza il fastidio della professoralità né quello della pedanteria settaria sul labirinto poetico di Francesco Guccini che prima mancava.

Come? Srotolando la narrazione bio-musicale principale su un tappeto di excursus mirati dedicati a canzoni simbolo, crocevia storici e culturali e topòi ricorrenti della canzone d’autore. Nove capitoli più, in coda, impressioni preziose e aneddoti di compagni di viaggio.

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Da Pavana a Pavana

Tappa obbligata inziale del viaggio è Pavana, città natale nascosta nell’Appennino tosco-emiliano. Passando per la Modena dei traumi dell’adolescenza e poi mamma Bologna, ombelico di gioventù, ebbra e spensierata tra trattorie e canzoni per scherzo diventate, poi, una professione. Sconfinando poi nell’America tanto sognata al cinema, tra i pionieri di un nuovo modo di fare musica e Dylan. E poi rinnegata quando conosciuta. Per tornare a rincantucciarsi, poi, in maturità nel nido Pavana per continuare combattere titanicamente lo scorrere del tempo a colpi di canzoni.

Più narratore che cantautore

Una galoppata, dunque, nelle “cosmogonie segrete” del cantautore, tra nostalgie lancinanti, letture accanitissime (è questo forse il grande merito di Talanca: aver reso giustizia al bibliofilo dietro il musicista, al narratore dietro il cantautore), miti di gioventù, sognati troppo a lungo e poi rinnegati sulle soglie della maturità, dame bellissime più letterarie che reali, partite a carte e pavanate con illustrissimi colleghi. Un’esistenza di contrabbando, quella di Guccini, spesa tra osterie, malinconie, utopie di rinnovamento ampiamente tradite.

Estratto di Guccini che canta Piccola città durante il concerto oceanico a Piazza Maggiore in Bologna nel Giugno 1984.

Tutto ciò per ribadire pagina dopo pagina che Guccini non è stato (solo) un cantautore politico. Neanche negli anni in cui i due termini erano (quasi) interdipendenti e socialmente obbligati. Ma politicizzato sì. E che ora non vuole più essere tirato per la giacca per sventolare la bandiera del progressismo socialista. Perché semmai è “diventato” politico quando l’ebbrezza di rivoluzione degli anni Settanta era evaporata già da un pezzo. Non per slancio e per rabbia, ma per forza. Quando si trattava di certificare la fine delle ideologie, il crollo di identità della sinistra italiana negli anni del berlusconismo dilagante. E la Locomotiva allora? Nient’altro che un grande equivoco politicizzato per quello che nelle intenzioni era un divertissiment letterario nato solo per «continuare il filone popolare ed epico di canzoni molto amate».

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Il libro-ritratto

Un libro-ritratto che ci restituisce la dimensione più intimista di un montanaro solitario diffidente di ogni altrove che si indovina oltre l’Appenino, suo malgrado diventato oracolo di un’intera generazione. E forse di più. Molte di più. Un libro per gucciniani incalliti e neofiti assoluti. Per riscoprire i sogni senza tempo, la malinconia carezzata dai viaggi letterari e musiciali, l’intimismo e il dubbio come metodo speculativo perpetuo, custodito tra i comignoli ormai spenti di Pavana, ultimo avamposto di una civiltà al canto del cigno per un signor Bovary da sempre in lotta contro la fiumana del Tempo.

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