Ricordi di un attentato: quattro anni dall’attacco incel di Toronto

Alle 13:22 del 23 aprile 2018, un furgone Chevrolet bianco brucia un semaforo rosso e punta il marciapiede sul lato ovest di Yonge Street, una delle vie più frequentate di Toronto. Alla guida del veicolo c’è il venticinquenne Alek Minassian, sviluppatore informatico, il quale investe e uccide undici persone, ferendone altre quindici. Da qui comincia il racconto di Pamela e Pedro, una coppia di fidanzati che a quel tempo viveva proprio a Toronto.

Alek Minassian attacco Incel Toronto
A sinistra: il furgone usato nell’attentato. A destra: Alek Minassian. Fonte: BBC News

All’improvviso l’attentato

«È stato scioccante…», racconta Pamela, «…anche se Pedro era a casa, mentre io ero a lavoro». La giovane coppia mi ringrazia dell’intervista. «È un modo per riportare l’attenzione su quanto successo in quel momento», visto che in questi giorni dovrebbe arrivare la sentenza definitiva del giudice.

«Conoscevamo bene quella zona. La frequentavamo parecchio in passato. È piena di uffici e ristoranti e a quell’ora ci sono moltissimi lavoratori che vanno in pausa pranzo». Forse, Alek non aveva scelto a caso quel momento per compiere l’attentato. Un atto premeditato, aggiunge Pedro, visto che il venticinquenne fantasticava su come portare a termine l’attacco già da dieci anni.

Per loro, lo shock iniziale è stato enorme e non riuscivano a concepire il perché di un gesto così brutale. Inevitabilmente, il primo pensiero è stato che si trattasse di terrorismo convenzionale, visto l’appoggio canadese alla Nato e alla presenza dell’esercito in diversi conflitti. Per cui, quando si è saputa la reale motivazione dell’attacco, è stato ancora più difficile accettare quanto successo.

«Già dopo poche ore sapevamo il perché dell’attentato. E per questo dobbiamo ringraziare i poliziotti di Toronto, che sono riusciti ad arrestare Alek, anche se ha fatto di tutto per farsi uccidere dalla polizia» afferma Pedro, invitandomi a guardare su YouTube il video dell’interrogatorio fatto all’attentatore. Proprio grazie alle domande degli inquirenti, emerge per la prima volta la parola incel.

Incel e la pagina più oscura della storia canadese

La confessione di Alek ha fornito moltissime informazioni sul movente e sulla preparazione dell’attentato. Già dal giorno dopo c’è stata una copertura mediatica importante e tutti i telegiornali parlavano di incel. «Non è stato un racconto morboso su Alek e sul suo passato». affermano Pamela e Pedro. «Sì, si è discusso di incel e di cosa significa, ma l’informazione si è concentrata sulle vittime e non sull’attentatore. Una commemorazione di chi è morto quel giorno, con le testimonianze di amici e familiari che onoravano la memoria dei cari scomparsi».

Come detto in precedenza, la puntuale confessione dell’attentatore ha acceso un faro su un problema sociale che fino ad allora non esistere. «Alek dice di sentirsi disprezzato e discriminato dalle donne per non essere un maschio alfa. Secondo lui, se a venticinque anni era ancora vergine, la colpa era delle donne che lo detestavano». Per Pedro, questo pensiero è inconcepibile e non è possibile che il celibato involontario possa portare ad azioni così estreme. Aggiunge che, se un ragazzo ha questo tipo di problemi con il genere femminile è perché alla base mancano delle «social skills», delle competenze sociali per sapersi relazionare con gli altri.

Un altro motivo per cui questo attacco è stato così scioccante è che non è la prima volta che succede. Pedro mi spiega che in tutte le scuole si ricorda ogni anno il Massacro del Politecnico di Montréal. In quell’occasione, lo studente Marc Lépine sparò con una carabina e uccise quattordici donne, per motivi simili a quelli di Alek. «Fin da ragazzini, a scuola, si parla di questo incidente per combattere la misoginia. È una delle pagine più nere del passato canadese e veder succedere una cosa simile a Toronto ha causato un profondo shock in tutta la popolazione del Canada».

lapide massacro politecnico montreal
Massacro del Politecnico di Montréal: lapide commemorativa. Foto: Wikimedia Commons.

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Il processo: dall’ipotesi autismo alla fame di notorietà

In questi quattro anni Pedro e Pamela hanno seguito il processo a carico di Alek Minassian, che dovrebbe concludersi proprio in questo periodo. Nonostante l’immediata confessione, non si è giunti a un’altrettanto immediata condanna. «Lui sapeva bene quello che stava facendo. Era lucido, razionale e ha confessato di saper di star facendo una cosa moralmente sbagliata» mi raccontano entrambi.

L’avvocato difensore ha provato a spiegare la convinzione di Alek nelle proprie idee e le difficoltà relazionali, come atteggiamenti che rientrano nello spettro dell’autismo. Le organizzazioni a sostegno delle persone autistiche hanno respinto subito questa motivazione, contestando l’associazione impropria tra il disturbo e l’attacco terroristico. Secondo Pamela, negli ultimi due anni si è quasi più parlato di questo che delle motivazioni legate al pensiero incel.

A tal proposito, nelle varie udienze, sono stati interpellati molti esperti per certificare o meno l’autismo. La tattica della difesa però non ha funzionato e gli esperti hanno confermato che l’attentatore non fosse autistico, e che, comunque, l’autismo non poteva essere la giustificazione per un atto simile.

Anzi, diversi psicologi hanno constatato che a spingere Alek ad agire sia stata la notorietà, piuttosto che l’ideologia incel. Minassian voleva che la gente sapesse chi fosse e lo riconoscesse. Come successo con il suo predecessore Elliot Rodger, anch’egli sostenitore del movimento incel. Nel 2014, in quello che verrà ricordato come il Massacro di Isla Vista, Elliot uccise sei persone perché si sentiva detestato dalle donne e dalla società che lo ignorava.

Per questo motivo, la giudice ha deciso di non dare alcun briciolo di notorietà ad Alek Minassian per tutto il resto del processo, riferendosi a lui come John Doe.

Orgoglio canadese

«Mi sono sempre sentita sicura e, anche come donna, non ho mai avuto paura» afferma Pamela. Inoltre, mi conferma che nei giorni successivi il livello di sicurezza si è alzato in tutta la città e ci sono state delle ripercussioni.

«Dopo l’attacco, ovviamente, sei più vigile e cerchi di capire se hai dei potenziali incel attorno, anche tra gli amici» scherza Pedro. «Sapere però che esistono queste cose, ti fa aprire la mente e accende una luce su cose che non conoscevi. All’inizio speri soltanto che l’assassino venga punito nel modo più severo, ma poi pensi come sia possibile che sia successo proprio in Canada, a Toronto».

Nonostante il Canada confini con gli Stati Uniti, non ha niente da condividere con i vicini, soprattutto per quanto riguarda la violenza. I cittadini canadesi, come Pedro e Pamela stessi, sono orgogliosi di essere così diversi dagli americani. Per questo non possono concepire che possa succedere un fatto brutale come quello dell’attacco di Minassian. «In realtà, anche se con le dovute differenze, abbiamo le stesse problematiche degli Stati Uniti» mi confida Pedro, analizzando in modo razionale la situazione.

«Per la società è un colpo durissimo perché non è e non vuole essere come quella americana. Inoltre, Toronto è definita “The Good“, un nomignolo che, ormai, è diventato il brand della città. Milioni di persone diverse tra loro, di estranei che, però, condividono lo stesso modo di vivere canadese, frequentando gli stessi posti e facendo le stesse cose. Una città così sicura, che nessuna delle metropoli nordamericane può competere.»

Toronto città
Città di Toronto. Foto: Wikimedia Commons.

Una società che si interroga

Nonostante quanto successo, Pamela vede un lato positivo in tutto ciò. L’attentato ha portato a una maggiore consapevolezza sul tema del celibato involontario. Ha acceso una luce su un problema fino ad allora sconosciuto ai più. Così l’intera società ha cominciato a farsi un esame di coscienza per capire dove avesse sbagliato.

Per Pedro, il fatto che se ne parli è un bene, anche se c’è il rischio di generalizzare. Per una singola persona che viveva una realtà distorta, non si può dimostrare che ci sia una crisi identitaria degli uomini nordamericani. Di sicuro, è aumentata la sorveglianza, soprattutto verso i gruppi incel presenti in rete. La preoccupazione delle autorità era che potessero esserci degli imitatori di Alek.

L’attacco del 23 aprile 2018 ha segnato, senza dubbio, le vite di tutti i cittadini canadesi, compresi Pamela e Pedro. Nonostante le vittime e il dolore seguito a questo fatto, è significativo l’esempio dato dalla società canadese, che non si è limitata a condannare il gesto, ma ha reagito affinché episodi simili non accadano più.

Di questo, me ne dà conferma Pamela. «Abbiamo cominciato a parlare dei giovani frustrati, delle interazioni virtuali e non, dei millennial che non hanno competenze sociali. A livello nazionale è iniziato un dialogo sul disagio degli uomini, sulla depressione, sul suicidio. Questo ha portato a un aumento degli aiuti dal punto di vista sociale, partendo dai giovani e dando loro sostegno psicologico».

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