Chi c’è dietro i nostri vestiti? Ovvero, fast fashion e altre derive

Quante volte ci capita di comprare una maglietta o un paio di jeans per pochi euro, pensando di aver fatto un affare? Le grandi catene di abbigliamento che tutti conosciamo – come H&M, Mango, Zara, Bershka e molti altri – ci seducono con i loro capi colorati e alla moda da acquistare a prezzi stracciati e ci convincono che abbiamo bisogno anche noi proprio di quel top rosa o di quella maglietta con i supereroi per completare il nostro guardaroba.

È il fenomeno della fast fashion, la “moda veloce” che dura una nel nostro armadio una stagione o anche meno. Infatti, quanto a lungo potremo usare quel top o quella maglietta pagati meno di dieci euro che fra qualche mese saranno già passati di moda? Veramente pochissimo, vista anche la pessima qualità dei materiali e delle stampe e la scarsa cura per le cuciture e per gli altri dettagli. In pratica, poco più che un capo usa e getta – indossato pochissime volte prima che i negozi ci seducano con nuovi capi di cui non avevamo assolutamente bisogno.

Genesi del fenomeno

L’etichetta “fast fashion” non è recente: nasce alla fine degli anni Ottanta, anche se è all’inizio di questo millennio che il fenomeno esplode così come lo conosciamo oggi. Alla sua base, una rivoluzione nei tempi della moda che diventano super veloci (da qui l’uso dell’aggettivo fast): alle due sole collezioni che ogni anno lanciano le grandi maison – quella primavera/estate e quella autunno/inverno – si sostituiscono infinite microcollezioni con nuovi pezzi in produzione e in vendita ogni settimana. Sì, perché le collezioni di un brand come Zara o Zuiki sono ben cinquanta ogni anno – esattamente una a settimana.

Il mercato ha bisogno di tutti questi vestiti e accessori nuovi? In effetti no, anche se è ciò che i grandi brand ci fanno credere: sedotto dalle fantasie e dalle stampe (magari realizzate in partnership con case produttrici di film, telefilm o cartoni animati) e ammaliato dai prezzi estremamente convenienti, il consumatore non si pone troppe domande prima di acquistare un nuovo capo che non gli serve. Del resto, pochi euro per una maglietta con i personaggi di Friends che bevono un frullato sono soldi ben spesi, un capriccio che vale la pena di essere soddisfatto.

Ma perché questi vestiti costano così poco? Dietro il così alto numero di nuovi capi e di collezioni sfornate ogni anno dai brand fast fashion ci sono scelte ambientali e sociali disastrose. Da un lato abbiamo l’uso di materiali scadenti (per lo più polimeri plastici, che derivano quindi dal petrolio), tinte chimiche altamente inquinanti e tecniche produttive di poco valore. Dall’altro abbiamo lo sfruttamento senza regole di uomini, donne e anche bambini che faticano anche sedici ore al giorno in tuguri sporchi e puzzolenti per produrre la nostra moda istantanea.

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Il disastro del Rana Plaza

Era il 24 aprile del 2009 quando un edificio commerciale di otto piani nel cuore del Bangladesh, il Rana Plaza, crollò accartocciandosi su sé stesso. Al suo interno lavoravano giorno e notte migliaia di schiavi della fast fashion alle prese con capi di abbigliamento che non avrebbero indossato mai, destinati ai ricchi Paesi occidentali: fra i brand prodotti in quel maxi-stabilimento possiamo menzionare Mango, Benetton, Primark, H&M e molti altri.

L’edificio versava in pessime condizioni: crepe e danni alla struttura erano stati già notati e segnalati dagli operai nei giorni precedenti – al punto che i negozi che avevano sede al piano terra erano stati chiusi in via preventiva perché dichiarati inagibili. Ma non le fabbriche di vestiti che si trovavano ai piani superiori e che dovevano continuare a sfornare vestiti a ritmo incalzante.

Nel crollo del Rana Plaza morirono circa 1200 persone mentre 2500 furono i feriti (probabilmente si tratta di stime al ribasso, come spesso accade in questi casi). Questo incidente, che molti neppure conoscono, è considerato ad oggi il più grave incidente del comparto della moda – eppure il prezzo di sangue pagato in questa occasione non è bastato a frenare l’onda di inquinamento e morte rappresentata dalla fast fashion, che continua invece a crescere e ad attrarre a sé sempre nuovi proseliti.

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I social e la fast fashion

I social network giocano un ruolo molto attivo nel tenere vivo il mito della moda a prezzi stracciati. Gli influencer fanno a gara per mostrare ai propri fan i bottini raccolti dopo lunghe sessioni di shopping sfrenato, suggerendo questo o quel brand, mostrando vestiti, borse, accessori al popolo degli internauti e invitandoli a seguire i loro suggerimenti. Qualche volta accade che i grandi marchi cavalchino l’onda di popolarità di alcuni di questi idoli per proporre loro la creazione di contenuti sponsorizzati.

Ma c’è anche un’altra pericolosa deriva della fast fashion che sta spopolando proprio grazie ai social: è il cosiddetto fenomeno del DUPE, un vero e proprio trend su TikTok. Si tratta, in pratica, di cercare e proporre ai propri fan alternative ancora più economiche ai vestiti (già economici) che si trovano nei negozi dei grandi marchi.

Facciamo un esempio: abbiamo visto un paio di pantaloni che ci piacciono in vendita in un negozio come Bershka o Zara, al prezzo di trenta euro. Non sarebbe meraviglioso se quegli stessi pantaloni, di uguale fattura e uguale (pessima) qualità fossero disponibili altrove a un prezzo minore? Ebbene, esistono portali online – come Primark, Aliespress o il più famoso Shein – dove gli stessi pantaloni sono in vendita magari a dieci o dodici euro, un prezzo di gran lunga inferiore.

Dupe in inglese vuol dire proprio questo: contraffatto, falso. Ovvero pagare qualcosa che è già scadente ed economica a un prezzo ancora più basso. Che questo poi alimenti una spirale sempre più stretta di inquinamento, sfruttamento, negazione della libertà e dei diritti fondamentali – importa poco o nulla.

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