Sergio Leone ha reinventato l’America, ma nel documentario di Zippel non si vede

L’ambizione di Zippel era filologicamente giusta: nel trentennale della morte dimostrare in un paio d’ore che Sergio Leone aveva vivificato un western nuovo sulle ceneri di quello classico. Reinventò l’America, insomma come vuole il sottotitolo. Per amore del cinema hollywoodiano che lo aveva formato. I risultati, però, del documentario presentato a Venezia 2022 sono confus(ionar)i e deludenti.

Leggi anche: Ennio: The Maestro, tutto Morricone in un film– theWise@theCinema.

Il colosso

Si parte dall’adolescenza cinemaniaca, svolazzando superficialmente sull’eredità dei genitori cineasti, per atterrare in tutta fretta sul Colosso di Rodi (1961), esordio alla regia liquidato come seminatoio comico-epico del Leone che sarà.

Da qui l’andamento cronologico, però, si insabbia, riemerge a sprazzi e si sfilaccia, fino al finale “bacioperuginico”. Si accenna alla Trilogia del dollaro e al vento di rivoluzione che fa spirare sul cinema. Ma l’epica è più nelle testimonianze sdilinquite dei soliti noti – Tarantino, Eastwood, Scorsese, Verdone, Spielberg – che nelle immagini di repertorio (pochissime e insipide). Poi solo sprazzi di Giù la testa, commiato antirivoluzionario di un socialista disilluso. Fino alla magnifica ossessione di Once Upon a Time in America, fatta a pezzi dai distributori americani dopo che aveva balcanizzano l’inconscio di Leone per decenni. E poi oltre, per l’ultimo sogno abortito: Leningrado, chiacchieratissimo kolossal di cui non rimane che un soggetto (che per di più non vediamo).

Il trailer del documentario.

Una sfilata affrettata

Nel mezzo, il regista infarcisce la trama pure con una sfilata affrettata e disorganica di temi, ideali, ritratti di famiglia: l’identificazione vita-cinema; il cinema come sbalordimento epico; Morricone co-autore musicale; l’amor filiale (più che maritale); l’empatia con De Niro e Connelly; il Kurosawa scippato; la fedeltà al Sergio fanciullino che giace nel Sergio regista; le sceneggiature mentali di quattr’ore sciabordate a chiunque; Tarantino come figlio artistico. Un pot-pourri del già detto -per esempio da Verdone racconta Leone– senza profondità né brillantezza.

Leggi anche: Caro ministro Sangiuliano, i sussidi uccidono il cinema.

Leone e il western

Così il cuore del film (la capacità di Leone di risemantizzere il western in un immaginario europeo) rimane soffocato da mille altri rigagnoli e suggestioni aneddotiche e (troppo) retrosceniste.

La sceneggiatura rincorre con affanno una filmografia scarna, già in sé epica, e sceglie di riprendere fiato tra una confessione dei figli (coproduttori per l’occasione) e l’altra. Il montaggio di Michele Castelli cerca di allacciarla saltando da C’era una volta il West a C’era una volta in America con la freddezza di uno stacco, rifugiandosi in una ripetitiva parata di primi piani di star. Il risultato è una narrazione nebulosa, prigioniera della sua ambizione: Zippel fa il santino al regista (tra)ballando tra registri senza abbracciarne nessuno e senza aggiungere novità succose al mito. Più che documentare, invita altri a farlo.

Peccato.

Impostazioni privacy