George Floyd, il rap e la protesta

«And we hate po-po / wanna kill us dead in the street fo sho’». Questo verso di Kendrick Lamar comparve in Alright, un pezzo dell’album To Pimp a Butterfly. Dalla sua uscita nel 2015 provocò una reazione dei media conservatori, primo tra i quali Fox News. L’antagonismo tra forze dell’ordine e afroamericani è qualcosa a cui Lamar fa riferimento più volte anche nel videoclip del pezzo. Non si astiene né dal denunciarne la violenza né da un senso di rivalsa quando rima a bordo di un’auto trasportata a braccio da quattro poliziotti. Come un re. Nello stesso album recita:

N-E-G-U-S description: black emperor, king, ruler, now let me finish
The history books overlook the word and hide it
America tried to make it to a house divided.

La crudele ironia della sorte nell’appartenere a una stirpe regale eppure essere visti come criminali in potenza dal sistema legale americano, non importa quanto in alto si sale. Un rapper diventa molto più facilmente infamous che famous.

Rap e sistema legale: una protesta in corso

Il rapporto conflittuale dell’hip-hop con i media mainstream è antico quanto l’hip-hop stesso e va di pari passo con la tensione razziale negli Stati Uniti. È un genere musicale nato e sviluppatosi all’interno della comunità afroamericana e spesso si fa portavoce delle sue lotte. Non è un caso quindi che la figura del rapper sia frequentemente oggetto di attacchi mediatici. La fama non è sufficiente ad allontanarli – anzi, li attira – e non è nemmeno un caso che s’intensifichino nei momenti in cui la tensione razziale cresce.

Il gruppo N.W.A. irruppe nel panorama musicale mainstream con pezzi come Fuck tha Police. Era il 1989 e già allora nell’hip-hop si denunciava la violenza e il razzismo strisciante della polizia. Qualche anno più tardi Tupac Shakur fu al centro di numerose controversie, al punto che uno dei suoi album più celebri s’intitola Me Against the World. Il rapper in quegli anni diventa uno stereotipo in cui si riversano tutti i tratti pregiudizievolmente associati ai neri: ignoranza, tendenza al crimine e misoginia.

Sono gli anni che hanno come sfondo prima l’epidemia dell’uso di crack nei ghetti, poi Rodney King e le rivolte del 1992. Lamar si lega direttamente a quel periodo e soprattutto a Tupac, di cui nel mondo hip-hop molti vedono come erede. Kendrick Lamar nasce e cresce a Compton, quartiere di Los Angeles tradizionalmente legato al gangsta rap. A detta dello stesso Lamar, una delle esperienze che lo portarono al rap fu proprio l’incontro con Tupac durante le riprese del videoclip per California Love.

rap e protesta
Foto: mali maeder from Pexels.

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In Mortal Man, altro pezzo di To Pimp a Butterfly, Lamar immagina di avere una conversazione con Tupac sul tema del conflitto sociale, della condizione dei neri e del modo in cui un afroamericano è costretto a inserirsi nella società pur restandone ai margini. Proprio questo brano contiene una poesia in cui è centrale la metafora del bruco che diventa farfalla, da cui il titolo dell’album.

The caterpillar begins to notice ways to survive
One thing it noticed is how much the world shuns him
But praises the butterfly.

La profondità e la bellezza dell’arte si nutrono del mondo circostante, che però è tutt’altro che idilliaco. Si parla di sopravvivenza, di modi con cui venire a patti con un mondo che da un lato impedisce ogni via per la redenzione sociale, dall’altra è assieme polizia, giuria e giudice. «Only God can judge me», scrive Tupac nel 1996, poco prima di essere ucciso. La polizia è onnipresente nei testi rap. Come non ricordare anche 99 Problems, in cui Jay Z descrive l’ennesima perquisizione a cui, è noto, un nero si deve abituare come normale parte della propria vita.

License and registration and step out of the car
Are you carrying a weapon on you? I know a lot of you are.

L’assunto di partenza è la colpevolezza, e accompagna l’abuso di procedure come il controverso stop-and-frisk, nei primi anni Duemila all’origine di uno scandalo che vide la polizia di New York dover giustificare lo sproporzionato numero di neri e ispanici fermati.

rap e protesta
Foto: PxHere.

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Negli anni precedenti al 2016, con l’elezione di Trump come presidente, si assistette a una crescente opposizione tra la destra repubblicana e le cause per i diritti civili. Nacquero movimenti come Black Lives Matter (peraltro a seguito di un altro caso di brutalità della polizia), ora di nuovo al centro del dibattito mediatico. Fu anche il periodo di un nuovo rinascimento nero, in cui, come nel precedente Harlem Renaissance, l’orgoglio afroamericano tornò protagonista nelle arti e nella narrazione dominante: Beyoncé con Lemonade, Donald Glover con Awaken, My Love! e Kendrick Lamar con il già citato To Pimp a Butterfly, J. Cole con 2014 Forest Hill Drive.

Opere che ebbero un grandissimo successo di critica e pubblico e hanno come esplicito intento catturare e discutere l’esperienza afroamericana contemporanea. Ancora una volta, tuttavia, più si spostarono al centro dell’opinione pubblica più ricevettero critiche da una significativa parte di media, come nel caso della famosa performance di Beyoncé durante il Super Bowl del 2016. Non era la sua prima volta su quel palco. A fare la differenza furono i richiami al movimento delle Pantere Nere, tasto ancora dolente nella storia americana, al punto che anche il solo farvi riferimento fu visto come un attacco alle forze dell’ordine.

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Foto: Wikicommons.

Perché il pubblico americano è così sensibile quando si tratta di razzismo e polizia? La questione rimane evidente. Protestare un sistema legale che opprime le minoranze non è accettabile, non ora con le rivolte ma nemmeno con un pacifico inginocchiarsi di Colin Kaepernick. Non con Malcolm X ma nemmeno con Martin Luther King. Non importa il grado di abuso razzista da parte del sistema o quanto sia pervasivo, si usa la stessa giustificazione. È un caso, una mela marcia in un sistema altrimenti perfetto e quindi non contestabile.

Come brillantemente illustrato da Trevor Noah in un suo recente video, è per definizione impossibile rovesciare un sistema ingiusto restando all’interno di un paradigma di “giustizia” – nel senso legale del termine, che come dimostrato molte volte nella storia può non coincidere con la giustizia ideale. La premessa di un qualunque tipo di ordine sociale democratico è una base comune di diritti garantiti. Se questi vengono meno, crolla anche l’ordine. Attaccare l’istituzione della polizia in qualunque forma, anche pacifica, passa dall’esplicitare una fondamentale carenza del sistema legale e giudiziario nella tutela dei diritti. Naturalmente chi tiene alla stabilità politica e sociale non vuole questo. Non solo; non vuole neanche avere una conversazione a riguardo. Le rivolte che coinvolgono numerose città americane in questi giorni hanno l’effetto desiderato, cioè obbligare tutta la società ad avere questa conversazione, necessaria per evitare altri George Floyd.

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