Elena Varotto: parliamo di antropologia forense

L’antropologia forense è la disciplina che studia i resti umani per fornire informazioni utili all’accertamento delle circostanze e delle cause della morte, al fine di favorire l’individuazione di eventuali responsabili. Questa è una disciplina tanto affascinante, quanto ai più sconosciuta. Per comprendere meglio questo mestiere, theWise Magazine ha intervistato l’antropologa forense Elena Varotto.

Elena Varotto è antropologa forense e paleopatologa, vicedirettrice del FAPAB Research Center di Avola, in Sicilia. Si occupa dello studio dei resti umani antichi in contesti archeologici e del riconoscimento di cadaveri sconosciuti di interesse forense. Elena Varotto è autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e membro di diverse società scientifiche. È ricercatrice al College of Humanities, Arts and Social Sciences della Flinders University di Adelaide, in Australia, ed è studiosa affiliata al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania.

Elena Varotto
Elena Varotto. Foto per gentile concessione dell’intervistata.

Oggi theWise Magazine ha intervistato l’antropologa forense Elena Varotto.

Cosa significa essere una antropologa forense?

«L’antropologo forense si occupa dell’identificazione di cadaveri non più riconoscibili, nella maggior parte dei casi ormai privati di buona parte dei tessuti molli o completamente scheletrizzati. Il suo compito principale è quello di stilare un profilo biologico più completo possibile a partire dai resti ritrovati. Ma il nostro lavoro – che io svolgo in qualità di CTU (consulente tecnico d’ufficio) o di ausiliario – non si svolge solo in laboratorio. Spesso e volentieri prendiamo parte a sopralluoghi giudiziari organizzati con le procure e le forze dell’ordine, soprattutto nei casi di scomparsi e/o sospetto occultamento di cadavere.

L’applicazione delle tecniche e dei metodi dell’antropologia biologica e dello scavo archeologico consente quindi di partecipare attivamente a investigazioni giudiziarie e di contribuire a risolvere casi di interesse legale. Il nostro lavoro è di forte ausilio a varie specialità, tra cui in primis la medicina legale che tradizionalmente si occupa anche dello studio dei corpi di interesse forense, ma lavoriamo anche in team con genetisti, biologi, entomologi ed esperti di altre discipline, in base al caso che si presenta».

Come nasce la passione per l’antropologia forense? 

«La mia passione per l’antropologia origina dall’interesse per l’anatomia. Partita da archeologia, mi sono sempre occupata dello studio dei resti umani, prima esclusivamente antichi, poi anche moderni. Più che una passione, direi che sono profondamente interessata alle informazioni che le ossa ci possono fornire. Non mi occupo esclusivamente di forense, sono anche un ricercatore in paleopatologia alla Flinders University in Australia e dirigo un centro di ricerca sui resti umani antichi e forensi, il FAPAB Research Center, insieme al professor Francesco Maria Galassi. Studiamo l’origine e l’evoluzione delle malattie su resti scheletrici e mummificati, dalle mummie egizie agli scheletri delle necropoli antiche».

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Quali sono le tecniche usate in laboratorio per il riconoscimento e la datazione dei reperti?

«In laboratorio si tenta di ricostruire il profilo biologico dell’individuo tramite metodi antropologici morfologici e metrici. Se i resti sono ben conservati, possiamo determinare il sesso dell’individuo, stimare l’età alla morte e la statura, come pure individuare l’esistenza di lesioni, traumatismi e patologie. A volte riusciamo solo a determinare se i resti siano di specie animale o umana. Importantissime ormai anche le tecniche radiologiche (RX e TAC). Nel caso in cui vi sia il sospetto che i resti possano essere antichi e non moderni, occorre eseguire diversi test. Tra questi, il più utilizzato e richiesto dalle procure è quello del radiocarbonio (C14). Le tecniche istologiche e genetiche complementano inoltre le analisi».

Elena Varotto
Elena Varotto. Foto per gentile concessione dell’intervistata.

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Quali sono le soddisfazioni di questo mestiere? Quali sono invece gli aspetti più critici?

«Sicuramente un’identificazione positiva, ovvero identificare dei resti e poterli riconsegnare alla famiglia affinché possa dare una degna sepoltura. Non sempre questo è possibile e ciò rappresenta, purtroppo, una delle tante criticità di questa professione.

In particolare, comprendere un problema biologico quale l’identità di un individuo rappresenta una sfida scientifica di altissimo livello e di grande complessità, che richiede la somma di tante competenze e un vero lavoro di équipe. Rispondere il più accuratamente possibile a quesiti che ci vengono posti è la soddisfazione maggiore, rinvenendo spesso, da scarne tracce biologiche, importanti informazioni che possono aiutare a risolvere un’indagine. L’aspetto più difficile è, senza ombra di dubbio, ricavare esattamente tutte le informazioni che desideriamo reperire quando ormai i resti sono in cattivo stato di conservazione o quando ormai è difficilmente determinabile la causa di morte di un individuo. L’antropologia forense, come numerosi colleghi nazionali e internazionali possono confermare, rappresenta, con il suo approccio transdisciplinare e originale, un utile complemento a un ben più ampio quadro investigativo e forense».

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Quale è stata la spedizione o la ricerca più affascinante a cui ha partecipato?

«Sarà strano, ma molte persone hanno l’idea di questa professione come affascinante, forse complici anche le varie serie TV su questi temi, con una connotazione a volte quasi morbosa. Nel mio caso l’interesse per la materia è puramente scientifico e professionale. Il mio approccio è molto razionale. Tendo più a concentrarmi sulla necessità di comprendere la complessità di un fenomeno e di trovare la chiave per analizzarlo.

In questo senso non ho trovato alcun caso “affascinante”: interessante, particolare, complicato, questo sì, ma non affascinante. Credo che sia molto importante valutare questa professione con razionalità ed equilibrio perché, in ultima analisi, ci si confronta quotidianamente con il tema della morte e spesso anche della violenza. Sicuramente molto formativa è stata l’esperienza di un occultamento di cadavere avvenuto in territorio fortemente infiltrato da organizzazioni malavitose. Ovviamente, mi capirà e non me ne voglia, i dettagli dei casi non possono essere divulgati».

Per finire, c’è un aneddoto particolare che vuole raccontare?

«Ricordo con piacere un fatto di un po’ di anni fa. Fu rinvenuto incastonato nel costone della spiaggia del lungomare di Avola in provincia di Siracusa quello che ad alcuni sembrava un torace umano scheletrizzato. Mi contattarono per un parere dopo avermi inviato alcune foto. Giunta sul posto insieme a un geologo abbiamo valutato il reperto. Mi fu subito chiaro che si trattava di un molare di elefante nano, un mammifero estintosi in Sicilia durante la preistoria.

La forma del molare nonché le dimensioni stesse del dente potevano ricordare a un occhio inesperto una gabbia toracica, soprattutto da lontano. Questo ha portato successivamente anche a una pubblicazione scientifica che rianalizza il mito greco del ciclope, in particolare come nelle epoche più ancestrali potessero essere stati scambiati i resti di animali estinti per resti di giganti. A volte la scienza può anche aiutare a gettare luce sul mito».

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