Il climatologo Pasini: «1,5 °C ormai difficili, ma non cediamo all’inattivismo»

La settimana di Ferragosto, normalmente avara di notizie rilevanti, si è aperta con un annuncio destinato a fare la storia. L’Intergovernative Panel on Climate Change, meglio noto con l’acronimo Ipcc, ha pubblicato il suo sesto rapporto. Il foro scientifico delle Nazioni Unite – massima autorità globale quando si parla di clima – ha impiegato otto anni per stendere questo report, che raccoglie e compara oltre quattordicimila studi e ha superato l’approvazione dei più grandi esperti del pianeta e dei delegati di oltre centonovantacinque nazioni. Un lavoro mastodontico, vero non plus ultra della ricerca sul clima.

Il caso ha voluto che la prima parte di questo documento (le altre due usciranno nel corso del 2022) sia stata resa pubblica nel pieno di una delle estati più critiche di sempre, costellata di grandi incendi (Canada, Siberia, Grecia), alluvioni senza precedenti (Germania, Cina) e record di siccità e calore (Iran, Italia). Una coincidenza non voluta ma di grande impatto, e che fa il paio con la scelta – questa sì, deliberata – di diffondere il report prima di Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima che avrà luogo a novembre a Glasgow.

Ma cosa dice questo documento? Stando a quanto emerge dal Summary for policymakers, il riassunto per i decisori politici stilato dallo stesso Ipcc, ad abbondare sono non tanto le novità assolute, quanto un deciso cambio di tono e di sicurezza nelle affermazioni.

«Il clima sta già cambiando in modo rapido, diffuso e sempre più intenso» scrivono gli scienziati delle Nazioni Unite. «Queste mutazioni colpiscono tutte le regioni del Pianeta e non hanno precedenti in migliaia di anni». Le attività umane sono senza dubbio alla base del riscaldamento globale, ribadisce il report, che aggiunge: «alcuni effetti del riscaldamento globale sono ormai inevitabili, ma altri possono essere rallentati o fermati limitando l’aumento delle temperature».

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La più grande delle novità rispetto al passato, però, riguarda i famosi +1,5 °C di aumento della temperatura rispetto ai livelli pre-industriali. Il limite che i Paesi di tutto il mondo si sono dati come desiderabile nell’ambito degli Accordi di Parigi del 2015 e considerato finora il miglior scenario possibile, seppur non privo di conseguenze. Gli scienziati dell’Ipcc valutano ormai difficile il rispetto di questo obiettivo, ma considerano per la prima volta uno scenario in cui si supererà entro qualche decennio questa soglia per poi tornare al di sotto grazie a una massiccia opera di assorbimento di CO2 dall’atmosfera. Perché questo avvenga, però, occorre sia raggiungere emissioni nette zero entro il 2050, sia sviluppare tecnologie di cattura del carbonio che – allo stato attuale – sono solo embrionali.

theWise Magazine ha chiesto ad Antonello Pasini, ricercatore del Cnr e tra i climatologi più autorevoli del nostro Paese, un commento al report Ipcc.

Un canadair si prepara a spegnere un incendio in Croazia.

Professor Pasini, cosa la colpisce di più tra le oltre quattromila pagine del rapporto?

«L’Ipcc non fa ricerche originali, ma seleziona e compara lo stato dell’arte della scienza climatica. Per noi che siamo del mestiere, quindi, non ci sono grandi sorprese.

Nonostante questo, è interessante vedere come la comunità scientifica si sia concentrata sul collegare al riscaldamento globale con sempre maggiore certezza gli eventi metereologici estremi che vediamo attorno a noi. Moltissimi fenomeni sono ormai considerati effetto della crisi climatica, con un livello di confindenza medio o alto. E tanti eventi sono definiti unprecedented, senza precedenti.

Poi c’è lo scenario 1.9, quello che prevede di superare il limite degli 1,5 °C per poi tornare indietro. Questa è una gran brutta notizia, purtroppo non inaspettata».

Ci sta dicendo che limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C non è più un’opzione sul tavolo?

«È ancora sul tavolo, per l’Ipcc non è tecnicamente impossibile. Ma ecco, di certo è difficile essere ottimisti. Si potrebbe superarli e poi tornare indietro, ma questo richiede uno sforzo, un periodo a emissioni negative in modo deciso, che appare non semplicissimo da raggiungere. Di certo per i +2°C si può e si deve lottare con tutte le forze che si hanno. Poi, si sa, la speranza è l’ultima a morire».

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Andiamo sul pratico: cosa sta succedendo all’Italia e quali sono i rischi più prossimi per il nostro Paese?

«In primis, ondate di calore come quella che stiamo attraversando in questi giorni. Sopratutto in città, dove la bolla urbana intensifica le temperature, stiamo vedendo e vedremo sempre di più un clima pericoloso per un bel pezzo dell’estate. E considerate che le vittime non saranno solo direttamente preda del caldo, ma anche dei suoi effetti secondari. Le alte temperature, ad esempio, favoriscono la produzione di inquinanti nuovi come l’ozono.

Fuori città, poi, questo significa incendi – e ne stiamo avendo un assaggio in Sicilia, Sardegna e Calabria – e siccità. Un gran problema per gli agricoltori del Sud, e anche al Nord la poca neve e i fiumi che si restringono rischiano di mettere in crisi le imprese.

E non dimentichiamo che l’anticiclone non fa danni solo quando arriva, ma anche quando se ne va. Lo sbalzo di temperatura tra l’aria fredda che cala e il mare ancora caldo porta ad alluvioni fuori misura, grandinate con chicchi grandi quanto mele e così via».

Molti giornali hanno insistito sull’irreversibilità dei cambiamenti. È così? Cosa possiamo fare ancora?

«Sicuramente l’aspetto dell’impossibilità di tornare indietro è qualcosa che c’è nel report Ipcc, ed è giusto riportarlo. Gli effetti del riscaldamento globale hanno spesso un’inerzia importante e, anche smettendo di emettere domattina, le temperature continueranno ad aumentare per i prossimi trent’anni. Non solo: per farvi un’esempio vicino a noi, i ghiacciai alpini non sono in equilibrio con le temperature medie. Questo significa che, se anche la terra non si scaldasse più di nemmeno un decimo di grado, comunque loro continuerebbero a fondersi per alcuni decenni.

Detto ciò, non cadiamo nella trappola di chi per questo preferirebbe non fare nulla. Molti di quelli che ieri erano negazionisti oggi, al contrario, si riscoprono fatalisti: ormai il cambiamento è irreversibile – dicono – tanto vale non fare nulla, limitarsi all’adattamento.

Questo sarebbe un errore imperdonabile! Se alcuni effetti sono ormai ineluttabili, molti altri possono essere evitati. Capite bene che un conto è perdere il trenta per cento dei ghiacciai alpini, un conto è perderne il novanta per cento a fine secolo. Chi suggerisce di abbandonare la mitigazione – cioè la riduzione e poi l’azzeramento delle emissioni climalteranti – fa solo un favore alle lobby del fossile. Il riscaldamento è un sintomo, bisogna agire sulla causa».

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A proposito di dibattito pubblico, come le sembra i media abbiano accolto l’arrivo del report? Ha registrato interesse adeguato?

«Sì, stavolta devo dire che mi sembra se ne stia parlando molto. Anche il giornalista medio, quello che di suo non si occupa troppo di clima, ha capito che questo rapporto è qualcosa di grosso. Probabilmente da noi l’ondata di calore ha aiutato: qualche anno fa mi è capitato di presentare un libro intitolato Il mondo in fiamme in una giornata di neve, e devo dirvi che l’effetto era piuttosto comico [ride, N.d.R.].

Poi certo, come sempre sono arrivati i soliti noti – i vari Libero, Il Foglio, il Giornale – con pezzi allucinanti. Ma ormai ci siamo abituati!».

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