La Youth4Climate si è rivelata solo un grande gioco, ma qualcosa di buono ne è uscito lo stesso

Il 30 settembre si è concluso Youth4Climate: Driving Ambition, l’evento delle Nazioni Unite che ha riunito a Milano quattrocento giovani da tutto il mondo per parlare di crisi climatica. Nonostante il tono trionfale degli organizzatori («È stata un successo, la replicheremo ogni anno» ha detto il Ministro Cingolani in conferenza stampa) i risultati sono stati quantomeno deludenti.

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I giovani delegati, due per nazione, hanno prodotto un documento finale pieno di principi più che condivisibili – transizione che non lasci indietro nessuno, ascolto delle popolazioni indigene, focus sull’istruzione, logica del loss and damage per aiutare i Paesi in difficoltà – ma vaghi, con ben pochi obiettivi quantificabili e alla fine dei conti non nuovi. Se lo scopo della manifestazione era trovare idee «disruptive», come ha detto Cingolani il primo giorno, la missione è evidentemente fallita.

Buona parte delle proposte scritte nel documento finale sono ampiamente diffuse e discusse da anni nei consessi Onu relativi al clima, e d’altronde era difficile aspettarsi qualcosa di diverso. I giovani delegati, ben lungi dall’essere un campione in qualche modo rappresentativo della gioventù mondiale o delle grandi organizzazioni giovanili, sono stati scelti direttamente dai governi nazionali. Inevitabilmente in assenza di qualsivoglia metodo simil-democratico la platea non è stata delle più militanti, e non tutti i delegati avevano una storia di impegno nel mondo del clima o conoscenze specifiche sul tema. Allo stesso modo la divisione in gruppi di lavoro – scelti dagli organizzatori Unfccc e governo italiano – ha portato le ragazze e i ragazzi a discutere di questioni molto diverse rispetto a quelle di cui si occuperanno i diplomatici veri, quelli della Cop26 alla quale l’evento di Milano dovrebbe portare contributi e idee. «A Glasgow discuteranno di green fund o di Ndc’s [gli impegni nazionali, N.d.R.], non di ciò che trattiamo noi oggi» ci dice una delegata asiatica.

Alla fine della fiera la sensazione è quella di aver assistito a un grande Model United Nations (noto come MUN in Italia), le simulazioni dell’assemblea generale delle Nazioni Unite molto popolari nelle scuole superiori di mezzo mondo. Un gioco divertente, appassionante, a suo modo educativo, ma pur sempre un gioco, non qualcosa con le potenzialità di incidere anche solo superficialmente sulla realtà.

Tutto da buttare dunque? Non proprio.

Tra i gruppi di lavoro nei quali i quattrocento delegati si sono divisi, uno si è fatto notare in modo particolare. È quello dedicato al coinvolgimento degli attori non-statali, dove alcuni dei partecipanti hanno deciso di disertare le discussioni previste dal protocollo (su temi come media, moda, sport) e organizzarsi in un sottogruppo autonomo: quello dedicato all’industria dei combustibili fossili. Come ha spiegato nel corso della prima riunione plenaria Ahmed Badr, delegato iracheno e relatore eletto del suo gruppo: «Le multinazionali del fossile influenzano profondamente la società e sono responsabili di larga parte delle emissioni globali: non possiamo non occuparci di loro». Uno strappo al protocollo che ha portato agli sviluppi più fecondi della discussione, forse alle uniche proposte davvero disruptive. Nella versione finale del documento il gruppo di lavoro chiede l’abbandono di tutti i combustibili fossili entro il 2030, la conseguente abolizione dell’industria fossile, una transizione decentrata e basata sulle comunità locali e i collettivi di lavoratori. Un inciso radicale apparentemente molto apprezzato da tutti i delegati – la platea è esplosa in un applauso quando un rappresentante francese ha esposto i punti – che si è conclusa con una frecciata ai padroni di casa. «Tutti gli attori non statali, Onu compresa» hanno detto i delegati, «devono rifiutare i finanziamenti dell’industria fossile».

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L’unico punto su cui i leader non potevano concordare, molto più ambizioso delle loro promesse, viene da quei ragazzi che hanno deciso di infrangere le regole. E comunque non è stato abbastanza per un piccolo gruppo di delegati vicini al movimento Fridays For Future – sette persone in totale – che ha deciso di abbandonare la sala interrompendo il discorso di Mario Draghi al grido di: «Basta greenwashing».

Una grande consultazione pubblica sul tema del riscaldamento globale poteva essere una buona idea, soprattutto se rivolta ai giovani. Ma tra i governi e gli organizzatori delle Nazioni Unite sembra essere prevalsa la paura di discussioni troppo radicali e imbarazzanti in vista dei negoziati veri e propri. Così la selezione dei delegati è stata in molti casi cherry-picked, fatta ad arte, come ha denunciato Thunberg il primo giorno dell’evento, e l’organizzazione del lavoro ha fatto sì non si parlasse dei temi che verranno poi discussi a Glasgow.

Ma mettere centinaia di ragazze e ragazzi nella stessa stanza ha sempre un elemento di imprevedibilità, e il lavoro fatto per evitare sorprese sgradite agli organizzatori non è andato in porto fino in fondo. Così, nonostante le premesse, il documento finale contiene almeno un’affermazione con pochi precedenti in questi contesti – l’abbandono del fossile al 2030 – e i giornali hanno dato ampio spazio alle contestazioni dentro e fuori il palazzo. Alla fine sarà probabilmente questo il lascito più grande di Youth4Climate.

Foto di copertina: Giacomo Stiffan

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