Il diritto alla riservatezza è donna: dal caso Soraya al cimitero dei feti

Il diritto alla riservatezza, comunemente conosciuto come privacy, è un diritto relativamente recente nel nostro ordinamento e ha subìto una profonda evoluzione dalla sua nascita a oggi. Nasce come rispetto della propria vita privata e finisce per abbracciare l’ampio e più attuale ambito della protezione dei dati personali. Fin dove siamo arrivati in tema di riservatezza?

Il diritto alla riservatezza: un po’ di storia

A dare vita al diritto alla privacy furono due studiosi americani, Samuel D. Warren e Louis D. Brandais, i quali riconobbero il ruolo determinante del progresso tecnologico nell’aumento delle opportunità di ingerenza nella vita privata degli individui, in un’epoca dove certamente il pericolo non era dato da social networks, tv e paparazzi, ma dalla semplice stampa quotidiana e dai primi sprazzi di fotogiornalismo. Essi lo definirono come il diritto di essere lasciati soli, adottando la formula del giurista ottocentesco T.M. Cooley.

In Europa venne firmata nel 1950 la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che, all’articolo 8, sancisce il rispetto della «vita privata e familiare» e «del domicilio e della corrispondenza». Nel 1975 questo principio fu alla base della sentenza n. 2129 del 27 maggio: si tratta del caso Soraya.

Il caso Soraya

Il ruolo dell’ex regina di Persia fu determinante per il riconoscimento del diritto alla privacy nel nostro ordinamento. Soraya, dopo essere stata ripudiata dal marito, decise di trasferirsi in Europa, dove divenne preda di mass media e stampa. A seguito della pubblicazione di foto della donna in atteggiamenti intimi con un uomo all’interno della propria abitazione, la Cassazione giunse alla conclusione che:

«Il nostro ordinamento riconosce il diritto alla riservatezza, che consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti».

Questa sentenza ha anche gettato le basi del principio del bilanciamento tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca.

File:L’impératrice d’Iran, Soraya.jpg
Ritratto di Soraya. Foto: Wikimedia Commons.

A seguito dello sviluppo di sistemi informatici sempre più potenti e in grado di reperire e conservare un’enorme quantità di dati, è nata l’esigenza di ampliare il significato di riservatezza, estendendolo al concetto di protezione dei dati personali e con esso la loro tutela: nasce la direttiva 95/46/CE.

In Italia, prima della legge 675 del dicembre 1996 (Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali), non esistevano norme specifiche a tutela della riservatezza e si faceva riferimento ai principi costituzionali, come ad esempio la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, della libertà personale, dell’identità personale, della segretezza della corrispondenza.

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Nel 2003 viene emanato il cosiddetto codice della privacy, oggi sostituito dal Regolamento Generale Europeo sulla Protezione dei Dati Personali (Gdpr) in materia di privacy e diritto all’oblio.

E se fu la necessità di una donna ad agevolare il riconoscimento da parte del nostro ordinamento di questo diritto, è ancora una volta per esigenza delle donne che questo concetto ha raggiunto la sua estensione attuale. Il riferimento è ai temi della riservatezza e della tutela dei dati personali per coloro che hanno vissuto un aborto.

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Il caso del cimitero Flaminio

Nel comune di Roma, dopo la triste scoperta della sepoltura dei feti con il nome della madre, ad aprile 2022 è stata approvata «la proposta di modifica di due articoli del Regolamento di Polizia Cimiteriale per adeguarlo alle necessità e alle sensibilità legate al trattamento dei dati personali delle donne che hanno vissuto un aborto».

Non più il nome della donna sul cippo funerario (senza neanche essere stata informata), bensì un codice alfanumerico associato al numero di protocollo della richiesta di sepoltura o – su richiesta – un nome di fantasia, un simbolo o una data, a garanzia dell’anonimato.

Non solo: l’accesso all’informazione sul cippo è ora riservato esclusivamente alla donna o agli aventi diritto nel caso di decesso della stessa, al contrario di quanto avveniva in passato, quando chiunque poteva contattare l’Ama per individuare la croce di proprio interesse all’interno del cimitero.

Il tribunale di Roma ha, perciò, archiviato il procedimento confermando che l’esposizione del nome delle donne sulle sepolture dei feti al Cimitero Flaminio è contrario alla legge.

A piccoli passi avanzano le grandi conquiste delle donne per le donne, finalizzate all’adeguamento dell’ordinamento giuridico alle dinamiche esigenze della società moderna.

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