Dal sette gennaio le scuole superiori inizieranno una graduale riapertura. Prima tornerà a essere in presenza il settantacinque per cento delle lezioni. Poi, si spera, la totalità degli studenti potrà riprendere la normale attività didattica. È questa una delle novità annunciate dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante l’ultima conferenza stampa dedicata all’emergenza Covid-19. Dal sei novembre, ormai più di un mese fa, le ragazze e i ragazzi delle scuole secondarie di secondo grado (quelle che comunemente chiamiamo “superiori”) e dell’università hanno lasciato le loro aule per seguire le lezioni da casa, in didattica a distanza, con la sola compagnia di un PC o uno smartphone.
A differenza della prima ondata, quando il blocco riguardò ogni grado del sistema istruzione dall’asilo al dottorato, stavolta sono rimasti esenti dalla chiusura le scuole elementari, le medie e le matricole universitarie, oltre a tutti quei corsi laboratoriali in ambito accademico che richiedono necessariamente la presenza. Un sacrificio necessario, come dicono i dati sulla diffusione del virus, che raccontano di una pandemia in leggero rallentamento ma ancora pericolosissima (il tre dicembre si è raggiunta la cifra record di 996 morti). Ma appunto un sacrificio, che resterà nella memoria dei tanti, tantissimi giovani che assieme alle lezioni hanno perso spazi di socialità, le prime esperienze formative ed essenziali e la comunità classe che normalmente li accompagna negli anni dell’adolescenza. Il rischio, ammoniscono psicologi e pedagogisti, è che questi mesi lascino ferite psicologiche profonde.
Paura
Sara frequenta il secondo anno delle scuole medie. Per lei la didattica a distanza stavolta non è scattata, ma il ricordo dei mesi chiusa in casa durante la prima ondata lo ha ancora ben presente. «Oggi siamo in zona arancione e vado a scuola» ci dice, «ma se penso che potremmo diventare rossi e tornare a fare didattica a distanza, mi viene tanta paura. Non voglio tornare a fare quella bruttissima esperienza».
Il motivo di questa preoccupazione è presto spiegato: «I mesi di didattica a distanza sono stati molto duri: se non capivi qualcosa, nessuno te lo poteva spiegare alla lavagna. I professori però sono sempre stati sempre molto disponibili. I problemi erano vari, ma il più grande è stato, per me, mandare ai professori i compiti assegnati. Spesso alcune cose erano date per scontate o fatte velocemente e questi compiti non andavano bene». Le chiediamo se ci sono stati anche aspetti positivi in questa esperienza: «Direi proprio niente!» ci risponde. «Mi mancavano tantissimo i miei compagni, ma anche le spiegazioni dei docenti».
Sara non è la sola a esprimere questi stessi giudizi. Emanuele e Andrea, suoi coetanei, percepiscono la stessa angoscia all’idea di rinunciare nuovamente alla didattica in presenza. «Se dovessimo tornare a distanza, non so come starei. Un po’ mi spaventa, ma forse lo accetterei. Ho paura perché mi mancherebbero sempre i miei compagni» ci confida Emanuele. «Penso che se dovessero chiudere ancora le scuole in un primo momento sarei felice, ma poco dopo diventerei molto triste. La didattica a distanza è un po’ bella, perché sono comodo a casa e dormo di più, ma dall’altra è brutta. Non posso incontrare i miei amici» gli fa eco Andrea.
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Disagi
Assieme alla paura di stare lontani da docenti e compagni, l’altro tema ricorrente nei racconti degli intervistati è quello dei disagi. Connessione scadente, programmi fatti a rilento, insegnanti poco avvezzi alla tecnologia, spazi in casa che non garantiscono la dovuta serenità. Sono tanti i problemi che rendono le lezioni online più difficoltose di quelle normali e molti di questi contribuiscono ad accentuare quelle differenze di censo che la scuola dovrebbe invece appianare. Case piccole e device insufficienti, infatti, sono problemi affrontati soprattutto da ragazzi e ragazze che vengono da famiglie a basso reddito. Un paradosso, se pensiamo che statisticamente sono proprio loro i più a rischio di abbandono degli studi, e quindi quelli di cui l’istituzione scolastica dovrebbe avere maggiore cura.
Federico frequenta un liceo dell’Emilia Romagna, e il suo giudizio sulla DaD (la sigla comunemente usata per indicare la didattica a distanza) è netto: «Vantaggi in questo momento non ne vedo» ci dice. «I problemi più grandi riguardano la connessione – che spesso rende difficile la frequenza – e l’orario. Capita che a volte, al posto di trenta ore, se ne riescano a fare solo diciassette». Anche Emanuele, il ragazzo di seconda media che abbiamo incontrato prima, lamenta problemi simili: «[A marzo] c’erano intoppi di connessione e le persone entravano e uscivano dalla videolezione, togliendomi concentrazione» racconta.
I disagi proseguono anche nel gradino superiore della piramide dell’istruzione: l’università. Più forniti di mezzi e con un’utenza minore rispetto alle scuole, gli atenei italiani sembrano mediamente meglio attrezzati nel garantire alle iscritte e agli iscritti connessioni wi-fi funzionanti e dispositivi in comodato d’uso. Ma anche qui l’assenza della presenza si fa sentire. «Il mio è un indirizzo che, se frequentato, prevede tanti laboratori con l’utilizzo di tecnologie apposite per l’analisi dei dati» ci racconta Laura, studentessa di data analysis. «Tutto il lato pratico viene sacrificato e vengono sacrificate anche le mie future abilità lavorative. Fossimo stati in presenza, i programmi sarebbero stati molto più completi e quasi tutti i corsi avrebbero previsto laboratori».
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Miglioramenti
Assieme alle lamentele, però, si fa spazio quasi sempre il riconoscimento del lavoro fatto. Rispetto alla prima ondata, che colse del tutto impreparate scuola e università, i giovani che abbiamo sentito registrano tutti importanti passi avanti.
«Quando abbiamo iniziato con la didattica a distanza a marzo, siamo stati tutto colti alla sprovvista. Stavolta invece il ritorno a questa modalità era stato messo in conto sia dai professori che dagli studenti, e oggi le cose vanno molto meglio, nonostante i normali problemi tecnici» spiega Alessandro, liceale emiliano. Anche Federico, che invece frequenta un tecnico economico, la pensa allo stesso modo: «Quando l’anno scorso [anno scolastico, N.d.R.] ci hanno imposto la didattica a distanza ci siamo trovati spiazzati, sia noi che i professori. Dopo qualche tempo ci sono state date indicazioni e la scuola si è fatta carico delle mancanze degli studenti fornendo dispositivi per connettersi alle lezioni. Ci siamo trovati più o meno bene e quest’anno è decisamente meglio, quasi come se fossimo a scuola».
Dal mondo dell’università arrivano conferme di questa tendenza. Allison studia ingegneria elettronica, e tiene a raccontarci dell’inventiva della sua facoltà: «Hanno trovato alcune soluzioni per i laboratori. Un docente ha organizzato piccoli kit che possiamo portare a casa e poi restituire, ma non per tutti i corsi si può fare. Altre esperienze sono diventate relazioni teoriche da consegnare basate su simulazioni al PC».
Esperienza simile per Federica, che studia medicina a Pavia. A marzo vide i suoi professori sparire, impegnati nella lotta al virus. «Lo scorso semestre molti professori non erano in grado di usare le piattaforme di videochiamata, mentre oggi, frequentando corsi che ho lasciato indietro, ho notato un miglioramento rispetto alle stesse lezioni tenute l’anno prima» ci dice. «La didattica a distanza, se usata bene, è utile. Nessuno perde le lezioni e in generale i professori riescono a essere più puntuali e sfruttano bene l’ora a disposizione».
Qualcuno – soprattutto tra i più grandi, gli universitari – trova anche dei vantaggi nella didattica a distanza. «La didattica a distanza non è da demonizzare totalmente» sostiene ad esempio Allison. «Io non sono fuori sede, ma la mia università dista quaranta chilometri da casa mia. C’è un risparmio di tempo e di denaro non indifferente. Inoltre le lezioni possono essere riascoltate in ogni momento».
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E il sostegno?
Una delle categorie meno raccontate nella narrazione sulla scuola al tempo del Covid-19 è, per assurdo, anche una di quelle messe più a rischio dalla situazione. Parliamo dei ragazzi e ragazze che, per un motivo o per l’altro, hanno diritto al sostegno. A farsi sentire maggiormente sono le differenze tra studente e studente. Ogni ragazzo o ragazza ha la sua storia e le sue difficoltà, e non con tutti la didattica a distanza funziona allo stesso modo.
«Penso sia sempre importante sottolineare che ogni caso è a sé, specie quando si parla di disabilità. La mia esperienza è stata positiva e stimolante, seppur impegnativa». A parlare è Paola, un’insegnante di sostegno nelle scuole superiori dell’Emilia Romagna, che continua: «Con i ragazzi di quinta superiore frequentavamo le lezioni con la classe intera, e organizzavamo nel pomeriggio delle videoconferenze per parlare con loro di questa esperienza unica, sia dal punto di vista scolastico che della vita in generale».
Diverso è il racconto di Isabella, insegnante di sostegno sarda: «Non c’è da esserne felici. È una regressione, se dura a lungo può vanificare progressi frutto del lavoro di anni. Per i bambini e ragazzi con disabilità, la didattica a distanza è in qualche caso del tutto impraticabile: per chi ha patologie gravissime, per chi ha grossi deficit sensoriali, per i ragazzi che non si esprimono verbalmente. Altri ragazzi hanno difficoltà a gestire da soli PC e tablet, o mal sopportano i cambiamenti, o soffrono per la lontananza delle figure di riferimento».
Il DPCM dell’undici novembre prevede la possibilità, per i ragazzi con sostegno, di recarsi comunque a scuola col proprio insegnante per seguire le lezioni. «Un alunno solo in classe con il suo insegnante di sostegno non ha niente a che fare con l’inclusione, anzi è piuttosto il suo contrario» prosegue Isabella. «Infatti, il MIUR ha poi suggerito, con la nota 1990, di istituire piccoli gruppi di alunni che a rotazione andassero a scuola con il compagno disabile e con tutti i docenti». Le chiediamo quante scuole, da ciò che le risulta, hanno adottato questa soluzione: «Pochissime, con mille difficoltà, resistenze, paura del contagio».
In alcuni casi le differenze, per assurdo, vengono appianate proprio dalla didattica a distanza. Racconta Paola: «Posso dire che questa situazione, per quanto strana, ci ha messo tutti alla pari. I ragazzi del gruppo del sostegno, forse per la prima volta, sono stati davvero alla pari degli altri. Tutti chiusi in casa, nella stessa situazione. Unirsi alle videochiamate e partecipare con tutta la classe è stato per loro un modo per sentirsi uguali agli altri».
Il futuro
Da gennaio ragazze e ragazzi di tutta Italia torneranno gradualmente in aula ed entro il mese seguente, curva dei contagi permettendo, le scuole dovrebbero riaprire completamente. Rimangono però tanti interrogativi non soddisfatti. Resteranno elementi acquisiti nella didattica a distanza anche in periodi non emergenziali? E quanto pesante sarà l’eredità di questi mesi senza aule sui giovani che li hanno subiti? Ancora è presto per darsi risposte. Sicuramente rimane, in tutti i nostri intervistati, una grande nostalgia dell’istruzione prima del Covid-19.
«Il sostegno è “anche” dare un chiarimento supplementare veloce mentre il collega spiega, costruire insieme uno schema, sovrintendere a un lavoro di gruppo, rassicurare, spronare. Tutte cose che difficilmente si fanno a due metri di distanza, figuriamoci dietro uno schermo» conclude Isabella. Dall’altro lato della cattedra un concetto simile ce lo esprime Allison: «Mi manca molto il confronto con i compagni e con i docenti. I compagni spesso diventano amici, e pensare di essere sulla stessa barca e potersi sfogare anche per eventi della propria vita privata è molto importante». Anche questa è la scuola ai tempi del Covid-19.
Lorenzo Tecleme e Marco Capriglio