Le novità sulla tutela dell’ambiente e i siti di interesse nazionale in Italia

Tutelare l’ambiente per le future generazioni è legge. L’8 febbraio scorso, la Camera dei deputati ha approvato la proposta di modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione (dopo l’approvazione del Senato nel novembre del 2021). Con la modifica dell’articolo 9 viene introdotta tra i principi fondamentali della Costituzione la tutela dell’ambiente «nell’interesse delle future generazioni», fatto che rappresenta «un passaggio storico» per il parlamento italiano e per il Paese, secondo quanto sostenuto dal presidente della Camera Roberto Fico. La tutela dell’ambiente è uno degli obiettivi principali dell’agenda istituzionale a livello italiano ed europeo. Si pone come prerequisito essenziale anche per l’accesso ai fondi del Pnrr e per la messa in pratica dei relativi progetti, finalizzati non solo al rilancio dell’economia dopo le ricadute causate dalla pandemia, ma anche alla riconversione della stessa verso orizzonti più sostenibili. 

Anche se la modifica costituzionale è stata accolta con favore da più parti politiche senza forti opposizioni, non è la prima volta che l’ambiente prende spazio nel dibattito politico e istituzionale. Come è noto, la tutela dell’ambiente passa attraverso la salvaguardia delle sue risorse fondamentali quali aria, acqua e suolo, e già nel 1987 i risultati del rapporto Brundtland (un documento realizzato dalla commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo) portò all’attenzione delle varie autorità nazionali che «la tutela delle risorse ambientali rappresenta la precondizione essenziale per lo sviluppo economico di lungo periodo».

Sebbene il rapporto non fosse stato concepito come un accordo internazionale con effetti giuridici vincolanti, ebbe tuttavia il pregio di stabilire confini entro cui le rispettive legislazioni nazionali avrebbero dovuto muoversi per coniugare sviluppo economico e tutela ambientale, «nel rispetto delle future generazioni». Negli anni successivi si sarebbero susseguite numerose conferenze internazionali indirizzate verso lo sviluppo sostenibile e la tutela delle risorse fondamentali, in un contesto in cui cresceva la consapevolezza circa il surriscaldamento globale e i cambiamenti climatici che ne derivano. Per quanto la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione possa sembrare indispensabile per catalizzare un «passaggio storico» per il nostro Paese, non è la prima volta che la tutela ambientale entra in via ufficiale nell’agenda istituzionale

Proprio la gestione di una delle risorse fondamentali in Italia (come il suolo) rappresenta un caso emblematico di come non sia sufficiente stabilire un obiettivo politico perché un problema di natura ambientale si risolva. A oggi, circa il tre per cento del suolo nazionale è contaminato e si trova distribuito nei cosiddetti siti d’interesse nazionale (SIN), una serie di aree soggette sin dagli anni Sessanta a un’intensa attività industriale (soprattutto energetica e petrolchimica) che nel tempo ha portato all’accumulo di quantità tali di agenti inquinanti da mettere a rischio non solo l’ambiente, ma anche la salute di chi vi lavora o di chi vive nelle aree limitrofe. Non solo Taranto, con lo stabilimento dell’Ilva, ma anche Brindisi, Venezia Porto Marghera, Piombino, Gela, Manfredonia, Casale Monferrato fanno parte di una lunga lista che contava fino al 2011 57 siti d’interesse nazionale, diventati 37 con il deferimento di alcuni a siti d’interesse regionale.

Il principio “chi inquina paga”

In seguito alle elezioni nazionali del 1996, la Federazione dei Verdi italiani ottiene lo storico risultato di ventotto deputati al Parlamento. Edoardo Ronchi, inoltre, ricopre la carica di ministro dell’Ambiente dal 1996 al 2000, sotto i governi Prodi I, D’Alema I e D’Alema II, concretizzando a livello istituzionale la crescente attenzione verso le questioni ambientali occorsa nei due decenni precedenti. Con una serie di decreti ministeriali adottati in questo periodo vengono individuate una serie di aree industriali sparse lungo il Paese a rischio ambientale e sulle quali si manifesta l’intenzione di intervento per risanarne i suoli e le falde. Al 2000, tali aree vengono perimetrate e definite siti d’interesse nazionale, da un lato per il ruolo strategico a livello economico-produttivo – trattandosi per l’appunto di aree dedicate al settore energetico, siderurgico, chimico e manifatturiero – e dall’altro in quanto le attività di risanamento (e dunque la loro gestione) diventano competenza del ministero dell’Ambiente. Tuttavia, l’innovazione principale che viene introdotta con questi decreti – in special modo con il Decreto Rifiuti del 1997 – è un principio all’apparenza automatico sul piano astratto, meno a livello pratico.

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Il principio “chi inquina paga” si pone come garanzia ai cittadini che le attività di risanamento sarebbero sostenute economicamente dagli stessi responsabili dell’inquinamento. Al 2012, il ministero dell’Ambiente ha concluso transazioni con alcuni dei responsabili dell’inquinamento dei siti di Porto Marghera, Brindisi, Priolo e Napoli est per un ammontare di circa 696 milioni di euro (di cui 566 riferiti al solo sito di Porto Marghera). Cifre elevate, ma risibili rispetto all’ammontare dell’intero giro d’affari, stimato intorno ai trenta miliardi. Per quanto nobile, tale principio ha sollevato diverse problematiche circa la distribuzione di competenze nelle attività di risanamento ambientale, non tanto per quelle porzioni di terreno in cui sono tutt’ora presenti soggetti certi e ben identificabili (come Eni, con cui il ministero può aprire contrattazioni) e di cui è ben nota la presenza in passato su questi siti, quanto per quei lotti di terreno in cui i responsabili dell’inquinamento sono società che già alla fine degli anni Novanta non esistevano più, come per esempio nel caso di Montecatini.

Edoardo Ronchi, ministro dell’Ambiente dal 1996 al 2000.

Una questione di competenze

Sulla base dei dati forniti da Legambiente in un lungo dossier del 2007 e rivisto nel 2014, in circa vent’anni i risultati ottenuti rispetto alla superficie totale da risanare sono di gran lunga insufficienti. Per fare un esempio, al 2013 nel SIN di Venezia Porto Marghera il dieci per cento è stato sottoposto a interventi di messa in sicurezza di emergenza, il 74 per cento è stato sottoposto alla caratterizzazione (i cui risultati sono stati avallati) e solo il 28 per cento dei progetti di bonifica sono stati approvati. Gli interventi di messa in sicurezza di emergenza non sono risanamenti, ma azioni volte a impedire che gli agenti inquinanti sconfinino su ulteriori aree limitrofe – spesso effettuati per le zone che trattano i rifiuti– mentre la caratterizzazione è il primo passo del processo di bonifica, la fase in cui viene tracciato il profilo del suolo contaminato, vengono individuati quali agenti inquinanti sono presenti, in che quantità e da che tipo di attività derivano. I risultati negli altri siti non sono molto diversi da quelli di Venezia: a Brindisi, in cui l’area perimetrata comprende circa seimila ettari di terreno adiacenti alla città e un lungo tratto di costa, le percentuali sono simili, con solo l’otto per cento dei progetti di bonifica presentati e approvati dal ministero. 

Risultati così scarsi, raggiunti in vent’anni di conferenze di servizi decisorie e istruttorie, commissariamenti e accordi di programma che coinvolgono i tre livelli di governance (nazionale, regionale e locale), le aziende, i sindacati, comitati cittadini e associazioni di categoria, sono indice di un alto livello di complessità in cui l’intenzione di risanare tali suoli non sempre si è dimostrata presente, mentre gli strumenti per farlo risultano spesso insufficienti se non quasi un ostacolo per l’avvio dei lavori. Nonostante la definizione di sito d’interesse nazionale presupponga la competenza ministeriale, non di rado i progetti di messa in sicurezza, le caratterizzazioni e i progetti di bonifica dovevano passare attraverso non solo l’approvazione del dicastero, ma anche quella regionale da parte dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale). Inoltre, il fatto che numerose aziende responsabili dell’inquinamento in tali siti non esistano più ha fatto in modo che non sempre l’applicazione del principio chi inquina paga fosse certa. In questi casi la competenza passava al ministero (soprattutto sulle porzioni di terreno nelle quali non subentravano altre aziende) che negli anni ha dimostrato una certa incapacità nel gestire un problema così complesso, tanto da indire bandi di gara che paradossalmente venivano vinti da società in house dello stesso ministero dell’ambiente quali Sogesid S.p.A.


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La certezza circa il soggetto responsabile delle attività di risanamento è fondamentale per il raggiungimento dei risultati. Basti pensare che a Brindisi, dell’otto per cento dei progetti di bonifica presentati e approvati, la stragrande maggioranza riguarda lotti di terreno su cui opera Eni. Inoltre, per ovvi motivi, interventi ambientali di questa portata richiedono un’enorme quantità di fondi, sulla carta messi a disposizione in passato ma il cui mancato sblocco da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze è stato denunciato nella commissione parlamentare d’inchiesta del 22 marzo 2013, tanto che la stessa commissione descrisse lo stato dell’arte rispetto ai siti d’interesse nazionale come «l’immobilismo o il finto attivismo della pubblica amministrazione». Questo aspetto emerge con più chiarezza soprattutto nei casi in cui i siti inquinati venivano commissariati senza che venissero in seguito raggiunti risultati significativi, tanto che la stessa commissione d’inchiesta rispetto al sito d’interesse nazionale di Crotone riporta che «l’ufficio del commissario per l’emergenza rifiuti non ha provveduto a porre in essere alcuna iniziativa per la messa in sicurezza e/o la bonifica dei siti inquinati».

La mano della criminalità organizzata

Rispetto a un opera pubblica che riguarda 57 siti d’interesse nazionale sparsi per tutto il territorio nazionale, il giro d’affari stimato ammonta a circa trenta miliardi. Nel solo nel periodo tra il 2001 e il 2012, gli investimenti privati e pubblici sono arrivati a 3,6 miliardi di euro. Si tratta di un caso di politica pubblica non scevro da infiltrazioni mafiose che hanno influenzato negativamente l’andamento dei lavori e l’allocazione delle risorse necessarie per le azioni di risanamento. Rispetto alle bonifiche dei siti, la criminalità organizzata si è spesso infiltrata non solo nelle operazioni di bonifica ex situ, per cui i rifiuti vengono trasferiti lontano dal sito inquinato (il traffico di rifiuti è un settore in cui operano da sempre le varie organizzazioni criminali), ma anche tramite la creazione di imprese specializzate nel settore e la deviazione dei sub-appalti. Il 16 gennaio 2013, per esempio, il tribunale di Santa Maria Capua Vetere dispose un sequestro nei confronti della società Eco Art, indirizzata alla realizzazione di tecnologie e progetti di depurazione delle acque reflue e contaminate e legata al clan dei Casalesi, e nel 2009, nel contesto della bonifica del sito di Pioltello (MI), vennero arrestati dirigenti della Sogesid S.p.A, società che in numerose occasioni e rispetto a diversi siti ha predisposto il sub-appalto delle operazioni dopo che queste le erano state affidate su bando dal ministero dell’Ambiente.

A oggi, la maggior parte della superficie contaminata è priva di progetti di risanamento approvati. A ciò si aggiunge che le operazioni di messa in sicurezza di emergenza non sono considerabili come azioni di bonifica, ma volte a limitare e contenere i danni ambientali. Coniugare lo sviluppo economico in aree storicamente dedicate alla produzione industriale e la tutela ambientale è un obiettivo semplice solo a parole. Non si tratta tanto di un problema di soluzioni tecniche disponibili, quanto di gestione della rete di attori che sono coinvolti in un problema che affligge il tre per cento della superficie del Paese da ormai più di vent’anni e che nei primi quindici anni di competenza ministeriale ha prodotto più di millecinquecento conferenze dei servizi (di cui circa ottocento istruttorie e settecento decisorie), per un totale di 22mila documenti di varia natura da esaminare per poter giungere alla sola approvazione dei progetti di bonifica.

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